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Stress post traumatico a Andria

Il disturbo post traumatico è tra i problemi mentali più diffusi tra la popolazione, in quanto direttamente collegato e dipendente da un evento fortemente traumatico.
Il soggetto reagisce con profonde sofferenze psicologiche che possono anche trovare manifestazioni somatiche a seguito di eventi quali lutti, catastrofi naturali, violenza sessuale, attacchi terroristici, incidenti stradali, malattia o rischio imminente di morte propria o di parenti, amici e persone care.

Le conseguenze a seguito di eventi simili si riferiscono alle grandi difficoltà che il paziente incontra nella vita di relazione, con una componente predominante di ansia, depressione e paura del ripetersi dell’evento e incapacità di superarlo. Il disagio è vissuto come invalidante non solo nella vita di relazione ma anche in ambito lavorativo.
I sintomi più evidenti del disturbo post traumatico sono, oltre alla paura, anche la vergogna, la rabbia, il senso di colpa, l’orrore e il provare insistentemente sentimenti negativi senza più essere capaci di aprirsi al mondo.
Anzi, ci si convince che il mondo è “cattivo” e che non ci si può fidare di nessuno, facendo congetture irrealistiche sulla causa dell’evento traumatico e individuando come responsabili se stessi o altri, che invece non hanno alcuna colpa.
La reazione più frequente però è quella di acquisire una concezione negativa di se stessi, al punto da innescare un processo di spersonalizzazione che vede i pazienti chiudersi agli altri, incapaci di provare soddisfazione in qualsiasi ambito della vita, rompendo rapporti e divenendo fortemente infelici e insoddisfatti.
Dal punto di vista psicologico il disturbo post traumatico può essere aggravato da incubi ricorrenti che fanno rivivere l’evento. Il soggetto può anche estraniarsi a causa di pensieri insistenti e intrusivi che lo disturbano con dei veri e propri flashback, che possono portare anche a reazioni come se l’evento si stesse rivivendo realmente.
Il paziente non è più in grado neppure di avvicinarsi ai posti dove l’evento traumatico ha avuto luogo e neppure di avere a che fare con le persone o le attività che in qualche modo a esso fanno riferimento.
In tal caso chi è soggetto al disturbo post traumatico si dimostra agitato e nervoso e ha reazioni spropositate. Nella vita quotidiana invece si insinuano anche problemi di concentrazione, difficoltà ad addormentarsi o ad avere un sonno regolare, mancanza di appetito, tachicardia.
Non è raro che, per non pensare al trauma, il paziente possa rifugiarsi nell’alcool o nelle sostanze stupefacenti cercando di annullarne anche se per poco il ricordo.
Il paziente che soffre di disturbo post traumatico può avere seri problemi nella continuità lavorativa e nella vita di relazione, che vengono fortemente messe in pericolo rischiando l’isolamento.
Il trattamento psicologico e la terapia comprendono un approccio sia di tipo farmacologico che cognitivo comportamentale. Se non curato adeguatamente il disturbo post traumatico può anche diventare cronico, mentre nei pazienti trattati con terapia adeguata si risolve mediamente entro un anno.
L’uso dei farmaci antidepressivi però serve solo come coadiuvante all’obiettivo dell’eliminazione del disturbo, in quanto ha effetti solo momentanei.
La terapia cognitivo-comportamentale è invece utile a ridurre principalmente lo stato ansiogeno e progressivamente tutti gli altri sintomi caratteristici, intervenendo anche in modo incisivo per portare il paziente a saper di nuovo affrontare il ricordo del pensiero traumatico.
Le tecniche terapeutiche più usate prevedono che il paziente sia messo di fronte a immagini che riportino alla mentre in modo tangibile l’evento traumatico. Il paziente sarà quindi accompagnato gradualmente nell’affrontare anche quelle situazioni che fino a quel momento aveva evitato.
Il disturbo post traumatico sarà quindi elaborato con l’attribuzione di nuovi significati sulle cause e sulle conseguenze dell’evento che lo ha provocato, con un significativo cambiamento anche dei pensieri negativi sul mondo, su se stessi e sugli altri.

Schizofrenia e psicosi a Andria

Schizofrenia e psicosi sono due patologie che hanno molto in comunque. Mentre la schizofrenia si manifesta su circa il 3% della popolazione, soprattutto nei soggetti maschi intorno ai 30–40 anni, la psicosi è molto più diffusa tra i giovani che, se curati tempestivamente, possono rimettersi completamente e condurre una vita normale.
Il termine schizofrenia deriva dal greco e significa “mente divisa”. Fu utilizzato per la prima da Eugen Bleuer ai primi ‘900 identificando una delle psicosi più frequenti, anche in forma lieve.

La schizofrenia e la psicosi interferiscono in modo pesante nelle percezioni della realtà, nelle emozioni, nel pensiero, nella volontà e anche nel ragionamento e nell’eloquio.
Le cause della schizofrenia non sono ancora oggi del tutto note. In passato si pensava erroneamente che non si potesse guarire mentre con le terapie psicologiche moderne è stato dimostrato che in un terzo dei pazienti riesce tornare a una vita perfettamente normale.
La guarigione dipende dalla gravità della schizofrenia e dal tipo di esordio che può essere dirompente. In questi casi la possibilità di guarigione è più elevata rispetto invece a sintomi che si presentano gradualmente e che possono essere confusi con stati depressivi. Il successo della terapia dipende infatti da quanto precoce è l’intervento terapeutico.
Le persone che hanno avuto precedenti familiari di schizofrenia sono maggiormente predisposti a incorrere nella stessa forma di psicosi.
Esistono altre cause non del tutto provate scientificamente che riguardano anche l’incidenza della schizofrenia nei soggetti con un basso livello di istruzione o di cultura. Alcuni esperti ritengono che questo possa essere invece un effetto piuttosto che una concausa della schizofrenia.
Anche la componente genetica potrebbe incidere sulla possibilità di ammalarsi di schizofrenia, con riferimento a una certa vulnerabilità psicologica dalla quale avrebbe origine la “scintilla” del disagio psichico e che potrebbe essere collocata in eventi familiari o nell’ambito scolastico durante l’infanzia.
Sulla schizofrenia dunque influiscono anche variabili ambientali nonché fisiologiche a livello cerebrale.
E’ stato evidenziato da studi approfonditi che negli schizofrenici esiste un’alterazione dei neurotrasmettitori che subiscono uno sfasamento causato dall’aumento dei valori di dopamina. La causa biochimica della schizofrenia sottende anche all’uso di una terapia farmacologica che possa attenuare i gravi sintomi come i deliri.
La manifestazione della schizofrenia, come detto, può essere acuta o graduale. Oltre ai deliri il soggetto può sentire suoni, voci oppure odori che in realtà non esistono. Nei casi di insorgenza graduale i sintomi della schizofrenia e psicosi sono riconoscibili da una tendenza alla chiusura, alla spersonalizzazione, fino all’autismo e a uno stato catatonico.
I sintomi della schizofrenia possono anche includere allucinazioni con la vista di oggetti che non esistono e che il paziente può anche inseguire oppure la convinzione di possedere particolari qualità o poteri che possono agire sulla volontà altrui.
Il pensiero è fortemente disturbato con un eloquio spesso senza senso e incomprensibile.
Il soggetto si chiude progressivamente in se stesso e può anche rimanere immobile per ore oppure avere reazioni molto aggressive.
L’emotività è azzerata e si cade nell’apatia e nel rifiuto stesso della realtà estraniandosi dal mondo, compresi i parenti e gli amici.
La schizofrenia e la psicosi hanno in comune proprio le allucinazioni, il cambiamento di comportamento, gli sbalzi repentini di umore che fanno passare dall’euforia alla più nera depressione in un lasso di tempo molto breve. Nella psicosi non è raro che il soggetto si estranei dal mondo o si senta “fuori dalla realtà”.
I comportamenti assunti da una persona con psicosi sono bizzarri e possono arrivare a calarsi nei panni di personaggi famosi o pensare di essere in pericolo di vita.
Per fare qualche esempio, ci sono soggetti psicotici che chiamano la polizia convinti di essere perseguitati da pericolosi killer oppure credono di essere il presidente degli Stati Uniti e tengono comizi per strada.
La psicosi può anche sfociare in un atteggiamento genericamente sospettoso, come per esempio la convinzione che il cibo o l’acqua siano avvelenati.
La terapia psicologia interviene con sedute personalizzate improntate sull’approccio cognitivo comportamentale ma anche con quelle di gruppo.
Lo psicoterapeuta ha come obiettivo quello di far recuperare le abilità di uso quotidiano per reintrodurre il paziente nella vita sociale e restituirgli autonomia.

Disturbo da incubi a Andria

Esistono dei parametri specifici per riconoscere e classificare il disturbo da incubi. Per prima cosa i ripetuti risvegli durante la fase del sonno principale con il ricordo dettagliato di sono particolarmente lunghi e terrificanti che, nella maggior parte dei casi, mette a rischio la sopravvivenza o la sicurezza del soggetto. Generalmente i risvegli avvengono nella seconda metà del sonno. Una volta risvegliata dopo un incubo estremamente spaventoso, la persona è fin dai primi istanti molto lucida e vigile.

Questi continui risvegli hanno poi delle ripercussioni sulla qualità del sonno in senso più generale creando un disagio significativo al soggetto che ne risente dal punto di vista sociale, lavorativo e personale. Non sono poi esclusivamente il decorso da un altro disturbo mentale o l’utilizzo di una sostanza a essere gli elementi principali che provocano il disturbo da incubi. È comunque verificata la correlazione tra incubi ricorrenti e disagi e problematiche di tipo sociale e lavorativo. Si crea un meccanismo che si ripete come in una spirale tra incubi, disturbi d’umore e depressione. Il disturbo da incubi può anche essere la causa scatenante di problemi che si innestano poi in sequenza. Incubi ripetuti di notte possono generare un timore per le ore notturne e per il sonno. Questa preoccupazione può portare all’insonnia e, di conseguenza, a disturbi del sonno e dell’umore. Sovente gli incubi portano con sé la visione di un pericolo fisico imminente, accompagnato da emozioni molto negative come il terrore, l’ansia, l’agoscia, il disgusto e la vergogna. Una serie di sensazioni che poi si ripercuotono negativamente a livello emotivo durante il sogno. In Finlandia è stata realizzata una ricerca che ha coinvolto tredicimila persone adulte con un’età compresa tra i 25 e i 74 anni. Alcuni dei partecipanti avevano sintomi di depressione, altri di insonnia. L’obiettivo era quello di stabilire se il disturbo da incubo fosse un indicatore dell’insorgere della depressione. È risultato come il disturbo da incubi colpisca più frequentemente le donne che gli uomini e i fattori di rischio siano dovuti a stanchezza, depressione, livelli molto bassi di autostima e insonnia. In particolar modo i soggetti con sintomi di depressione e insonnia hanno confermato questa teoria. Si stanno ora studiando i problemi provocati dal disturbo da incubi che toccano in modo pesante la quotidianità degli individui che ne soffrono. Sogni particolarmente intensi e paurosi provocano continue e ripetute interruzioni e, di conseguenza, sono fonte di stress. Questo accumulo di stress provoca danni importanti alla sfera sociale e lavorativa del soggetto. La presenza ripetuta e prolungata dei sogni spaventosi genera terrore e una sensazione molto intensa di ansia. Esistono infatti incubi che hanno un tema ricorrente e che si ripetono più volte nel corso della notte. I più frequenti sono quelli in cui il soggetto viene inseguito, ha un incidente, oppure viene aggredito e la sua incolumità fisica viene messa a rischio. Una volta che avviene il risveglio, il soggetto può descrivere il sogno nei minimi dettagli: il contenuto, il suo sviluppo e le sue sequenze sono ben presenti nella mente di chi soffre di disturbo da incubo. In questi casi è importante sottolineare che nella maggior parte dei casi gli incubi non rappresentano situazioni reali o eventi in cui il soggetto si è ritrovato realmente. Dopo il risveglio, lo stato di allerta e di lucidità si raggiunge quasi immediatamente e il senso di angoscia e timore è particolarmente intenso anche da svegli. Diventa quindi complicato per il soggetto riprendere sonno dopo un risveglio così traumatico. Ci sono soggetti che preferiscono evitare di dormire per paura di fare incubi e si genera in loro uno stato di sonnolenza, di minore capacità di concentrazione, di ansia e irritabilità. Per questo motivo i soggetti che soffrono di disturbo da incubi sono soggetti a rischio depressivo o di ansia.

Ansia generalizzata a Andria

Disturbo da ansia generalizzata: cos’è
Il disturbo da ansia generalizzata è caratterizzato da uno stato di eccessiva e inappropriata apprensione, non circoscritta a particolari circostanze ma persistente.
I pazienti presentano sia sintomi fisici, come tachicardia, tremori, mal di testa, tensione muscolare, difficoltà a deglutire, sudorazione, nausea, ecc., che psicologici, i quali includono agitazione, stanchezza, difficoltà di concentrazione, irritabilità e disturbi del sonno.

Il disturbo è diffuso e disabilitante: un recente studio epidemiologico svolto in Europa ha riscontrato una percentuale di casi compresa tra l’1,7% e il 3,75% nell’anno precedente, con una maggiore incidenza in età avanzata e un associato invalidamento funzionale simile alla depressione. Inoltre, molti soggetti che potrebbero facilmente beneficiare dei trattamenti non vengono correttamente diagnosticati e curati, il che è sconcertante, dal momento che è disponibile una vasta gamma di terapie il cui successo è scientificamente provato.
Anche se l’ansia generalizzata non è necessariamente legata a stimoli esterni, può fare la sua comparsa in periodi particolarmente difficili e stressanti della vita.

Fattori di rischio e diagnosi
I principali fattori di rischio del disturbo da ansia generalizzata sono:
– Quadro psicologico: una persona con un temperamento timido, pessimista, poco incline ai cambiamenti o che tende ad evitare le situazioni di pericolo può essere predisposta a sviluppare l’ansia generalizzata.
– Predisposizione genetica.
– Essere donna: il disturbo colpisce il doppio delle donne rispetto agli uomini.
– Abuso di sostanze: alcol, droghe, tabacco, caffè, ecc. sono responsabili di un aumento della tensione nervosa e dell’ansia.
– Episodi traumatici vissuti nell’infanzia.
– Esposizione ripetuta a situazioni di forte stress.
– Aver sofferto in passato di gravi malattie, come un tumore, o essere afflitti da malattie croniche.
Per pervenire ad una diagnosi di ansia generalizzata, il medico di base pone di solito domande dettagliate riguardo i sintomi e la storia clinica del paziente, ma potrebbe anche richiedere degli esami approfonditi per escludere una patologia sottostante.
In genere, devono essere presenti almeno tre dei seguenti sintomi negli adulti e uno nei bambini: agitazione, stanchezza, difficoltà di concentrazione, irritabilità, tensione muscolare, problemi del sonno.

Trattamento dell’ansia generalizzata
I due principali trattamenti contro l’ansia generalizzata sono la psicoterapia e la terapia farmacologica. In base all’entità del disturbo, i due metodi possono essere anche usati in combinazione.
Per quanto riguarda la terapia farmacologica, la linea di trattamento prevede la classe degli antidepressivi, tra cui gli inibitori del sistema di riassorbimento della serotonina (SSRI) e gli inibitori della ricaptazione della serotonina-norepinefrina (SNRI). Poiché l’effetto di questi farmaci non compare in genere prima di due settimane, durante questo periodo il medico potrebbe prescrivere farmaci appartenenti alla classe delle benziodiazepine per contrastare le fasi acute del disturbo.
Gli ansiolitici vanno però assunti per brevi periodo in quanto un loro uso prolungato può provocare dipendenza e assuefazione.
Sia nel caso degli antidepressivi che delle benziodiazepine, l’interruzione del trattamento deve avvenire gradualmente e sotto stretto controllo medico.
Contrastare le fasi acute del disturbo con i farmaci è necessario ma non basta a risolvere il problema a lungo termine. Per questo è indispensabile associare alla terapia farmacologica una psicoterapia di tipo cognitivo-comportamentale, che aiuti il soggetto ansioso ad intraprendere un percorso di decondizionamento dallo stimolo ansiogeno. Questa tecnica comporta l’esposizione graduale alle situazioni che generano ansia, effettuando con lo specialista un lavoro di analisi dell’esperienza vissuta in un’ottica positiva per farla ritornare in un quadro di normalità e poterla riaffrontare in seguito con maggior sicurezza.

Infanzia e adolescenza a Andria

Infanzia e adolescenza sono due fasi fondamentali nella crescita e nello sviluppo di un individuo. È in questi periodi che si acquisiscono gli elementi e le caratteristiche che poi saranno affinate e sviluppate in età adulta. Il passaggio dall’infanzia all’adolescenza è delicatissimo ed è importante per i genitori affrontarlo correttamente garantendo quel supporto necessario al giovane che si trova di fronte ad un passaggio fondamentale della sua vita. Oggi questo passaggio avviene molto prima di quanto avveniva anni fa. Già all’età di 11–12 anni, mediamente, avvengono cambiamenti fisici e psicologici di tale portata che non si può più parlare di bambini o bambine. L’infanzia si è conclusa e nel giro di due o tre anni si può parlare tranquillamente di adolescenza.

I primi cambiamenti sono quelli evidenti anche esteriormente. Sono i cambiamenti fisici. Il fisico si trasforma in mondo palese e si compie la maturazione sessuale. Per le ragazze è possibile che arrivi il menarca a questa età. Il compito degli adulti, in questa fase, è quello di rappresentare un punto di riferimento per aiutare i figli a vivere questi cambiamenti e queste trasformazioni in modo sereno e naturale. Nel passaggio da infanzia ad adolescenza non sempre il corpo si sviluppa secondo i desideri dei figli: l’accettazione di sè e la risposta a ogni dubbio o domanda deve avvenire dai genitori che devono essere rassicuranti nel trattare questi argomenti.
Altro aspetto che contraddistingue il passaggio da infanzia ad adolescenza è il modo di pensare. Se un bambino ha un pensiero concentrato esclusivamente sulle sue esigenze pratiche e immediate, l’adolescente comincia a sviluppare pensieri più astratti, opinioni e valutazioni che lo porteranno a trovare il modo di risolvere problemi o situazioni più complesse. Entrato nell’adolescenza, il ragazzo comincia a farsi una propria idea su ciò che lo circonda: crea una propria identità confrontandosi e rapportandosi con il mondo. In questa fase si alternano il desiderio di essere conforme alla massa, per avere un’accettazione all’interno della società, e il desiderio di individualità e originalità che lo spingono a trovare un modo di essere unico e distinto da tutti gli altri. Anche in questo caso è fondamentale il ruolo dei genitori che devono rappresentare un punto di riferimento presente e affidabile con cui relazionarsi, rapportarsi e con cui condividere idee, pensieri e convinzioni. I genitori devono rappresentare una sorta di modelli con cui i figli possono confrontarsi per poi scegliere o meno di assomigliargli. In questo passaggio dall’infanzia all’adolescenza sono normali gli scontri tra genitori e figli. È grazie a queste piccole ribellioni che l’adolescente testa le convinzioni dell’adulto e capisce di essere un individuo capace di pensare in maniera propria e autonoma.
Sotto l’aspetto prettamente psicologico il passaggio da infanzia ad adolescenza provoca delle vere e proprie rivoluzioni. L’adolescente è molto più vulnerabile rispetto ad un bambino. Cresce notevolmente la sensibilità nei confronti di ciò che avviene intorno a lui. Si sviluppano in un adolescente pensieri ed emozioni completamente nuovi. In questa fase emerge l’importanza dei coetanei. Attraverso il confronto con altri adolescenti si costruisce e si mette alla prova la capacità di piacere agli altri e si cominciano a costruire le prime importanti relazioni affettive che vanno oltre all’aspetto esclusivamente familiare. In questo caso gli adulti devono saper accettare e comprendere questa necessità del ragazzo di vivere queste esperienze: devono anche spronarlo a non accontentarsi di vivere nella massa, ma aiutarlo a scoprire la propria individualità e le proprie caratteristiche specifiche. È proprio in questo momento di superamento dell’infanzia che l’adolescente elabora i primi pensieri di quello che desidera per la sua esistenza e inizia a porre le basi per seguire la propria strada. Nel momento in cui comprende quello che è il suo sogno e di mette al lavoro per realizzarlo, sarà in grado di affrontare anche in futuro con una maggiore consapevolezza le sfide che la vita gli presenterà ogni giorno e saprà comportarsi di conseguenza.

Sessuologia e disturbi sessuali a Andria

La sessuologia si occupa dei disturbi sessuali e del mondo di approcciarsi con il partner perché si possa stabilire una relazione libera dai quei problemi che possono intervenire nel disturbare il ménage della sfera intima e di conseguenza anche sentimentale.
Sessuologia e disturbi sessuali vanno quindi considerati come un “unicum” in vista della terapia riabilitativa di tipo prettamente psicosessuale.

La figura del sessuologo, infatti, non è definita in modo preciso se non in rapporto alla psicologia e alla sessuologia clinica.
Per lo studio delle disfunzioni e dei disturbi sessuali concorrono anche altre dottrine quali la medicina, l’antropologia, la sociologia, la pedagogia, ecc, in quanto sono da considerate influenzati da altrettanti aspetti culturali, sociali, biologici, eziologici, educativi.
L’approccio multi disciplinare della sessuologia ai disturbi sessuali deve quindi considerare molteplici aspetti dello stesso problema con i vari contributi specifici.
La sessuologia e i disturbi sessuali sono in relazione a due grandi campi di studio: le disfunzioni sessuali e le parafilie cioè le perversioni sessuali (pedofilia, pauperismo, sadomasochismo, feticismo, voyeurismo, ecc).
I problemi sessuali interferiscono pesantemente sia nella vita intima delle persone che in quella di relazione, impedendo di esprimersi liberamente e di avvertire un elevato grado di frustrazione. In altri casi impediscono di fatto di avere una vita sessuale.
Le cause dei disturbi sessuali sono tuttavia relativi a molteplici aspetti che possono riguardare questioni organiche e fisiologiche che sono di competenza prima di tutto medica, ma anche disfunzioni individuali psicogene, conflitti all’internò della coppia, difficoltà nella capacità di relazione.
La sessuologia e i disturbi sessuali sono quindi da intendersi in modo molto ampio e possono riguardare:

– l’assenza di desiderio, di eccitazione e di piacere
– la disfunzione erettile
– l’eiaculazione precoce, tardiva e/o dolosa
– l’impossibilità di raggiungere l’orgasmo per uomo e per donna
– l’avversione sessuale
– l’assenza di eccitazione sia nell’uomo che nella donna
– le fobie sessuali
– la dispareunia cioè il dolore durante il rapporto sessualevaginismo
– il disturbo d’identità di genere
– i problemi sessuali riferiti al rapporto omosessuale

Il campo di studio è quindi molto vasto e, per quanto riguarda le disfunzioni in riferimento ai disturbi nel rapporto omosessuale, si parla di difficoltà ad accettare la propria identità sessuale e del malessere dato dall’identificazione con il sesso opposto.
La sessuologia e i disturbi sessuali riguardano coloro che hanno bisogno di un aiuto per risolvere in modo definitivo le loro disfunzioni e senza più che si ripresentino nella sfera sessuale e nella vita di relazione, anche cambiando partner.
Il problema di fondo che accomuna tutti i disturbi sessuali è quindi l’assenza adeguata di una risposta allo stimolo o un’anomalia rispetto al desiderio sessuale provato per soggetti fuori dal comune (bambini o anche oggetti inanimati, associati a pratiche erotiche anomale o portate alle estreme conseguenze).
L’intervento della sessuologia nei disturbi sessuali consiste nell’affrontare in modo collaborativo il problema insieme al paziente o alla coppia in seduta comune.
Il modello terapeutico a cui si fa riferimento è quello di tipo costruttivista o cognitivo comportamentale.
In genere entrambi gli approcci hanno successo anche in tempi relativamente brevi. Il sessuologo, infatti, agisce tramite l’assegnazione di alcuni “compiti” o modelli di comportamento sessuale che si associano ai singoli disturbi. Si tratta di mettere in atto delle indicazioni che possano ripristinare l’attività sessuale in modo graduale, riferiti sia al singolo che alla coppia. Non di rado è utile associare anche una terapia per la stessa coppia o un counseling relazionale. La sessuologia interviene anche sulla riformulazione dei pensieri e delle convinzioni del paziente che portano alla disfunzione sessuale, includendo anche un’eventuale terapia farmacologica.
Per quanto invece riguarda i disturbi degli omosessuali è la terapia cognitivo comportamentale quella d’elezione per aiutare il paziente ad affrontare una serie di pregiudizi di tipo sia sociale che culturale o religioso, rasserenandolo rispetto alla sua identità sessuale.

Stress a Andria

Il termine stress deriva dal settore della fisica, dove viene normalmente impiegato per descrivere il comportamento elastico dei corpi rigidi sottoposti a tensione. Occorre attendere gli anni 50 per vedere i primi utilizzi di questa parola anche nell’ambito delle scienze psicosociali. In quest’ultimo caso, il concetto di stress è associato ad un modello di reazione degli organismi viventi che si osserva in seguito a specifici eventi di natura chimica, biologica o sociale, durante i quali è possibile in genere anche misurare il grado di resistenza al fattore modificante un certo equilibrio iniziale.

I fattori che esercitano stress sono definiti stressori. Lo stressore equivale sostanzialmente ad uno stimolo che muove la persona interessata a sviluppare una reazione di adattamento. Questa reazione allo stress può avvenire su più livelli e include in genere combinazioni di modifiche comportamentali, cognitive ed emozionali da parte del soggetto stesso.
Le reazioni anzidette possiedono inoltre un ampio spettro di variabilità individuale, nel quale trova spiegazione la situazione per cui ogni persona risponde diversamente al medesimo stressore. Rimane inteso che, affinché si possa realmente realizzare un evento o situazione in grado di evidenziare una determinata risposta allo stress, occorre innanzi tutto riconoscere e qualificare lo stressore.
Questo rende possibile giudicare una situazione e comprendere in linea di principio se sussiste una minaccia individuale. Inoltre, permette di ponderare le possibilità a disposizione dell’individuo affinché esso possa far fronte alla minaccia stessa ovvero le risorse che sono disponibili per attuare interventi compensativi.
Alcuni stressori quali le lesioni corporali sono considerati da tutti gli uomini come minaccia e scatenano una o più reazioni presso ogni individuo. Nel caso particolare di un pericolo, si possono inoltre riconoscere nelle persone reazioni comuni, rappresentate dall’accelerazione del battito cardiaco, dall’incremento della pressione arteriosa e della sudorazione, nonché da un aumento della tensione muscolare.
Le reazioni sopra descritte prodotte in risposta allo stressore “pericolo”, svolgono la funzione di preparare l’organismo ad affrontare al meglio la situazione che gli si prospetta d’innanzi.
In seguito all’estinguersi dello stressore, gli indici di misurazione delle relative reazioni rientrano progressivamente nei valori dell’equilibrio antecedente il particolare evento. Nella fattispecie, il battito cardiaco si abbassa, la sudorazione si interrompe, ecc.
Le reazioni allo stress sopra esposte rientrano nell’ambito del cosiddetto “stress positivo” o “stress acuto”, poiché sono considerate risposte dell’organismo che conferiscono un vantaggio. Dall’altra parte, si riconoscono forme di “stress negativo” o “stress cronico” quando siamo di fronte a stressori che non consentono intervalli di riposo, bensì mantengono l’organismo in un continuo stato di tensione.
Questa seconda categoria di risposta allo stress è generalmente generatrice di situazioni patologiche, poiché mantiene l’organismo in una condizione di non equilibrio ovvero di alterazione per lungo tempo. Un esempio classico di stressore in grado di produrre stress cronico è rappresentato da un evento luttuoso, mentre uno stressore che dà luogo ad una forma di stress acuto può essere, ad esempio, un esame scolastico o un colloqui di lavoro.
Gli stress positivi sono in genere sperimentati dall’individuo senza particolari conseguenze permanenti, mentre gli stress negativi, come si accennava poc’anzi in merito al loro potenziale patogenetico, possono indurre comportamenti autolesivi nell’individuo stesso, il quale, anche inconsapevolmente, cerca stimoli compensatori come, ad esempio, l’alcol, il fumo o il cibo.
Al fine di rimuovere detti comportamenti ovvero poter intervenire di fronte alle conseguenze spesso nefaste di una eccessiva assunzione di alcol come di cibo, occorre individuare con precisione lo stressore o gli stressori presenti ovvero escludere rigorosamente la responsabilità dello stress quale fattore alla base della specifica situazione di alterazione.
Le alterazioni biologiche provocate dallo stress negativo sull’organismo umano interessano sovente il sistema immunitario, il quale viene meno in una certa misura al proprio compito di difesa. Per questa ragione, otre ai comportamenti compensatori accennati, questa tipologia di stress risulta particolarmente insidiosa poiché apre la porta ad un’ampia gamma di patologie anche molto diverse fra loro e non sempre direttamente correlabili a specifici stressori.

Sonnambulismo a Andria

Il sonnambulismo è un disturbo del sonno di origine benigna, solitamente a risoluzione spontanea, che consiste in attività semplici e automatiche che rispecchiano le azioni quotidiane.
Il sonnambulismo è molto comune nella fascia d’età tra i 7 e i 12 anni e tende a scomparire con l’avanzare degli anni; negli adulti, il sonnambulismo è molto spesso dovuto a cause psichiatriche come nevrosi, psicosi e isterismo. Il disturbo si manifesta durante il sonno non REM e quindi nella prima parte del sonno (entro 2–3 ore dopo che il soggetto si è addormentato).

La durata dei movimenti associati al sonnambulismo varia dai 5 ai 20 minuti al massimo: il soggetto sonnambulo in alcuni casi può arrivare ad alzarsi dal letto, camminare per casa o addirittura scendere in strada ma, al contrario di ciò che comunemente si crede, questi casi sono rari. Solitamente il sonnambulo si siede sul letto e mima gesti ripetitivi come vestirsi, lavarsi i denti, mangiare, a volte con gli occhi aperti dando l’impressione di essere sveglio, può camminare per la stanza, accendere la televisione e compiere altre azioni al termine delle quali spontaneamente torna a letto. La mattina seguente il sonnambulo non ricorda nulla delle azioni compiute.
Durante l’episodio di sonnambulismo il soggetto può parlare chiaramente o in modo incomprensibile e può anche diventare aggressivo, se chi lo osserva lo tocca o tenta di svegliarlo. Contrariamente alle credenze popolari, non è pericoloso tentare di svegliare un sonnambulo, soprattutto se esiste il rischio concreto che possa uscire di casa e mettersi in pericolo; tuttavia se il sonnambulo si limita ad eseguire gesti automatici e poi torna nel proprio letto, si consiglia di non tentare di svegliarlo perché ciò potrebbe causare confusione e agitazione nel soggetto. Il sonnambulo non è cosciente del proprio disturbo e quindi durante la notte va controllato, per evitare che possa diventare un pericolo per sé stesso.
Le cause esatte del sonnambulismo sono sconosciute.
Si ipotizza che si verifichi una iper-eccitabilità della corteccia cerebrale la quale impedirebbe il sonno profondo, mantenendo attivi i meccanismi fisiologici della veglia e del sonno; ulteriori studi ipotizzerebbero una causa genetica, più precisamente un’alterazione sul cromosoma 20, considerato che nella metà dei casi il soggetto affetto ha un parente anch’esso sonnambulo.
Nei bambini la spiegazione del sonnambulismo è esclusivamente di natura psicologica, dato che un terzo dei bambini dai 5 ai 12 anni sperimenta almeno una volta questo tipo di disturbo (solo una minima percentuale lo manifesta in maniera ricorrente). Probabilmente, il sonnambulismo è legato alla particolare fase di sviluppo del bambino, che tenta di elaborare le tensioni tipiche dell’età mettendo in atto comportamenti notturni stereotipati. Il sonnambulismo nel bambino non deve destare preoccupazione, a meno che gli episodi non siano molto frequenti (più di 2 la settimana o più volte durante la stessa notte), il bambino compia azioni pericolose come vagare per la casa, oppure il bambino non sia molto agitato o addirittura aggressivo. Altri sintomi associati al sonnambulismo, come l’enuresi (bagnare il letto) o l’ansia, richiedono un consulto medico per escludere problemi emotivi.
Le cause scatenanti il sonnambulismo, sia nell’adulto che nel bambino, possono essere lo stress o episodi emotivi, febbre alta, deprivazione di sonno e anche l’utilizzo di sostanze psicoattive (droghe e farmaci).
Le cause esatte possono essere indagate con alcune sedute di psicoterapia ma, non essendo una malattia ma solo un disturbo benigno, si tende a non trattare il sonnambulismo nei bambini anche considerando che tende a sparire in modo spontaneo con la crescita.
In età adulta il sonnambulismo è piuttosto raro: si riscontra solo nel 2% della popolazione adulta.
Il trattamento nel sonnambulismo nel bambino è comportamentale: mantenere orari del sonno regolari e se necessario rilassare il bambino prima del sonno (canzoncine, lettura di libri…). Se gli episodi sono tali da destare preoccupazione esistono specifici farmaci, diversi nell’adulto e nel bambino, che regolarizzano il riposo notturno diminuendo le fasi di sonno profondo.

Separazione e divorzio a Andria

Le recenti indagini ISTAT rivelano l’aumento vertiginoso del numero di separazioni e di divorzi registrati in Italia nel corso degli ultimi anni. Infatti dal 1995 al 2011 le separazioni sono aumentate del 68% mentre i casi di divorzio sono addirittura raddoppiati. Vi è una differenza di base tra separazione e divorzio, infatti mentre la separazione è temporanea e può portare ad una riconciliazione o meno tra i coniugi, il divorzio ha carattere definitivo e sancisce lo scioglimento del matrimonio dal punto di vista legale, civile e patrimoniale.

Purtroppo non sempre separazione e divorzio legale coincidono con quello emotivo, anzi molto spesso questi due processi si realizzano in tempi diversi. La separazione emotiva dal partner presuppone la fine di un legame psicologico che può essere avvenuto prima della separazione legale o che non può esserci stata affatto, di solito il partner che richiede il divorzio ha elaborato prima questo distacco, quindi è più sicuro nell’affrontare la situazione, a differenza del partner che subisce il divorzio, suscettibile di seri problemi psicologici che richiederanno molto tempo ed impegno per essere superati.
Separazione e divorzio generano uno scompenso sia a livello psicologico ed emotivo che sociale e culturale, la rottura del legame di coppia viene infatti paragonata ad un lutto, che come tale, viene elaborato attraverso diverse fasi in tempi più o meno lunghi.
Generalmente alla prima fase di resistenza, in cui si cerca a tutti i costi una riconciliazione, ma in cui si esternano solo rabbia, sentimenti di rivalsa e di vendetta, segue quella della depressione, in cui ci si rende conto della irreversibilità della situazione; pian piano si comincia ad accettare il dolore della separazione e a realizzare la prospettiva di una vita diversa, senza l’altro.
Il periodo necessario all’elaborazione del lutto dipende da diversi fattori quali l’età, la durata del matrimonio, la presenza o meno di figli, la professione e il livello di istruzione; incide molto il sostegno dei familiari e di amici, l’indipendenza economica, il supporto di un nuovo partner.
Spesso, per le donne che percepiscono un reddito più basso del marito, la separazione e il divorzio costituiscono un impoverimento, soprattutto se affidatarie di figli minori.
Molte volte una donna divorziata, per fare fronte alla nuova situazione personale e familiare, è costretta ad accettare condizioni lavorative sfavorevoli, oppure è costretta a tornare a vivere nella famiglia di origine, comunque a vivere situazioni, dal suo punto vista, fallimentari. Questo non fa altro che alimentare il proprio senso di frustrazione che si può riversare contro sé stessi o sui figli.
La separazione e il divorzio generano nella famiglia una situazione di stress devastante, in quanto “summa” di tanti stress diversi e contemporanei, dovuti alla perdita dei benefici che porta il matrimonio: stabilità affettiva, soddisfazione dei bisogni di intimità, senso di protezione garantito dalla presenza di un partner, con cui condividere responsabilità e decisioni. Il matrimonio rappresenta la risposta alle aspettative sociali, pertanto la separazione e il divorzio si traducono in un fallimento di fronte alla società, che può essere vissuto con un senso di inferiorità, di inadeguatezza, che inquadrano il soggetto in un cliché negativo.
Alla complessità dei fattori psicologici, al diverso tenore di vita che si prospetta, si aggiunge lo stress legato all’iter legale: colloqui con avvocati, udienze al tribunale, sentenze sull’affidamento dei figli, sono sicuramente dei passi obbligati, dagli effetti devastanti sul piano emotivo.
Gli effetti negativi di questo stato di stress violento influenza anche la salute fisica, infatti dagli studi condotti su campioni di persone divorziate e non, si evince che nel primo caso si ha una maggiore incidenza di malattie cardiovascolari e del sistema immunitario. Le reazioni psicosomatiche interessano anche il sistema nervoso, infatti rispetto ai coniugati, i divorziati fanno maggiore uso di antidepressivi, di sonniferi e tranquillanti.

Obesità a Andria

L’obesità, come aumento spropositato del peso corporeo (20% in più rispetto al peso ideale), rappresenta una delle più insidiose patologie endemiche contemporanee. L’apporto calorico superiore alla spesa energetica dell’organismo, nel corso del tempo si tramuta in aumento della massa grassa (I.M.C. superiore a 30) rispetto alla massa magra. Un meccanismo che induce in un circolo vizioso, composto da diversi fattori, biologici, psicologici, e sociali. Infatti, le cause dell’obesità non riguardano esclusivamente gli aspetti medici, come i difetti metabolici relativi alle ghiandole endocrine,

ma anche le alterazioni del comportamento alimentare, quasi sempre legate a fattori psicologici.
É utile capire come alcuni soggetti, pur ingerendo le stesse quantità di cibo, divengono obesi e altri no. In questo caso, i soggetti obesi non sono in grado di spendere sotto forma di calore, secondo il processo di termogenesi obbligatoria e facoltativa, le calorie introdotte. Continuando ad assumere alimenti e a non consumere in modo efficiente, si arriva all’obesità, primaria e secondaria, ginoide e androide (forma iperplastica ed ipertrofica). In entrambi i casi, il numero ed il volume delle cellule adipose (adipociti) aumenta notevolmente, fino alla comparsa di complicanze di rilevante entità. L’obesità, infatti, predispone a numerose malattie, come il diabete, le problematiche legate all’apparato circolatorio e respiratorio, l’ipertensione e le artopatie. Nella maggior parte dei casi, per evitare di incrementare inesorabilmente il rischio di ammalarsi, è utile ricorrere, sotto prescrizione medica, ad un regime dietetico adeguato, a base di cibi ricchi di fibre e proteine, ed all’aumento dell’attività fisica. Nei casi più gravi ed estremi, è quasi sempre consigliato un intervento chirurgico di riduzione dello stomaco, a cui necessariamente segue una dieta mirata.
Quando le cause non riguardano prettamente la predisposizione genetica, una disfunzione ormonale, o un difetto metabolico, l’obesità nasconde un forte disagio psicologico. Alla base di un’assunzione smisurata di cibo può esserci un’insoddisfazione e disprezzo della propria immagine, con relativa perdita di autostima e depressione. Tutti questi fattori inducono a considerare il cibo come un rifugio; un rifugio che in realtà intrappola il mondo interiore, allontanandolo dalla percezione sana del nutrimento (iperfagia, ipoglicemia reattiva). Le conseguenze più evidenti, oltretutto, portano ad una mancanza di stimoli interni ed esterni, che a loro volta generano noia e mancanza di movimento. Quando l’obesità è legata ad un’alterazione del comportamento alimentare, il trattamento diventa più complicato ed articolato: il soggetto affetto da obesità dev’essere valutato da più punti di vista, dall’anamnesi clinica all’osservazione del comportamento alimentare, in un ambiente ricettivo che miri a motivare, fino alla completa guarigione. In questa particolare fase è fondamentale il lavoro di figure professionali come lo psicologo ed il nutrizionista, che insieme concorrono a migliorare le metodologie di pensiero del paziente, sradicando illusorie convinzioni, stabilendo un nuovo rapporto col cibo.
Purtroppo, questo stato di cose riguarda anche i bambini e gli adolescenti. La familiarità con la patologia, gli agi, la sedentarietà, l’aumento del cosiddetto cibo spazzatura, e la mancanza di informazione, giocano un ruolo determinante nell’obesità infantile. Essa insorge quasi come un gioco, e finisce per diventare un’abitudine. In questo caso, i bambini, e gli adolescenti in generale, soffrono per il loro aspetto fisico, oggetto di scherno da parte dei compagni, divenendo vittime e facili bersagli. Questo atteggiamento può degenerare, costringendo il giovane soggetto a mangiare sempre di più, in modo reattivo, con conseguenze spiacevoli sulla psiche. Purtroppo le statistiche denunciano un serio incremento dell’obesità, inducendo ad adottare sempre più misure di prevenzione, e sostenere campagne di sensibilizzazione.

Nuove dipendenze a Andria

Un tempo quando si parlava di dipendenza si faceva esclusivamente riferimento alla dipendenza da sostanze psicoattive o all’alcolismo. Oggi i cambiamenti a livello sociale, la maggiore disponibilità di denaro e di strumenti tecnologici hanno indotto la diffusione delle cosiddette nuove dipendenze. Queste dipendenze sono definite comportamentali in quanto vengono messe in atto nei confronti di oggetti o comportamenti ritenuti del tutto normali e accettabili a livello sociale.

Difatti queste dipendenze non comportano azioni illecite, nè atteggiamenti illegali, ma vengono camuffate nella quotidianità, essendo del tutto comuni.
Le nuove dipendenze comprendono un ampio spettro di comportamenti patologici: la dipendenza da internet (associata alla dipendenza dalla tecnologia), lo shopping compulsivo, la dipendenza dal lavoro, il gioco d’azzardo, la dipendenza dai videogame, la dipendenza dal cibo e la dipendenza affettiva.
Le nuove dipendenze sono molto difficili da individuare e spesso gli stessi familiari faticano a riconoscere l’esistenza del problema. Queste manifestano le stesse caratteristiche della dipendenza da sostanze, seppure in assenza di qualsiasi sostanza chimica. Sono presenti difatti la tolleranza e l’astinenza, così come la perdita del controllo che porta a continue reiterazioni nel tempo (le ricadute).
Quando il soggetto non può avere il proprio oggetto di dipendenza o non può mettere in atto un determinato comportamento, tende a sviluppare una vera e propria crisi d’astinenza, accompagnata da una condizione di agitazione psicomotoria, ansia, difficoltà a vivere la propria quotidianità, desiderio impellente dell’oggetto d’abuso. Oltre all’astinenza si presenta anche il caratteristico fenomeno della tolleranza, per cui la persona sarà portata ad aumentare gradualmente il tempo da dedicare alla propria dipendenza. Si evidenziano inoltre bisogni impellente di gratificazione oltre ad una forte difficoltà nel gestire i propri impulsi. Gli studi hanno dimostrato come nella strutturazione della dipendenza comportamentale siano coinvolti gli stessi circuiti cerebrali della gratificazione ( i circuiti meso-cortico-limbici) ed è proprio questo il motivo per cui è difficile sradicare questi comportamenti in breve tempo. Si innesca un circuito di automantenimento che coinvolge la persona non solo a livello psicologico, ma anche a livello fisico. Alcuni autori ritengono che in assenza di una sostanza d’abuso (alcool o droga) non si possa parlare di dipendenza, per cui considerano le nuove dipendenze come semplici compulsioni all’interno di un disturbo ossessivo compulsivo.
Queste dipendenze a lungo andare alterano la quotidianità del soggetto, con ripercussioni sulla vita scolastica, lavorativa e sociale. L’unico desiderio che pervade l’esistenza di queste persone è quello di eliminare tratti ed emozioni negative e ricercare costantemente l’euforia, la felicità, come se non si potesse lasciare spazio ad altro. Ma cos’è che porta allo sviluppo di una dipendenza? Generalmente alla base vi è un forte bisogno di evadere da situazioni problematiche e difficili, conflitti relazionali, vuoti e carenze affettive. Questo porta la persona a trovare metodi artificiali per stare bene, nel disperato bisogno di provare piacere. Quando avviene il primo contatto con l’oggetto del proprio abuso, la gratificazione ottenuta porta la persona a reiterare il comportamento, facendolo diventare un’abitudine che a lungo andare struttura la dipendenza. I fattori che possono predisporre all’insorgenza di una nuova dipendenza possono essere eventi diversi: eventi traumatici ed esperienza di vita spiacevoli, precedenti storie di dipendenza, forme psicopatologiche come depressione, ansia, disturbo ossessivo compulsivo, per citarne solo alcune. Generalmente le persone dipendenti manifestano insicurezza e bassa autostima, sono tendenzialmente impulsive, vanno costantemente alla ricerca di emozioni forti, hanno una bassa tolleranza alle frustrazioni. Un intervento efficace nel trattamento delle nuove dipendenze non può quindi prescindere dall’analisi della storia del soggetto, a livello personale e familiare.

Gioco d’azzardo a Andria

Il gioco d’azzardo patologico è un problema molto frequente nella nostra società: soprattutto in Italia, dove lo scarso controllo dei titolari dei locali consente a chi soffre di questa patologia un facile accesso alle slot machines e alle sale giochi. Stando ai dati rilevati da Auser, infatti, sono in costante aumento i giocatori patologici di qualsiasi fascia d’età: a preoccupare, oltre al numero esponenziale di giocatori over-65, sono soprattutto gli adolescenti, sempre più attratti da uno svago che, se non controllato, può diventare molto pericoloso.

Cos’è il gioco d’azzardo patologico
Il gioco d’azzardo patologico, detto anche ludopatia o dipendenza da gioco, è una patologia appartenente alla categoria dei Disturbi del Controllo degli Impulsi. La ludopatia è caratterizzata dalla tendenza a giocare in continuazione somme di denaro sempre più elevate: un gesto che causa, nei giocatori dipendenti, il bisogno di continuare a giocare fino all’esaurimento del proprio budget. Al contrario delle patologie legate ai disturbi ossessivo-compulsivi, il gioco d’azzardo patologico spinge alla dipendenza per via delle emozioni positive che crea nella psiche del giocatore, motivato dalla speranza di recuperare i soldi spesi e dal brivido di una grossa vincita apparentemente dietro l’angolo.
Perché la ludopatia crea dipendenza
Il gioco d’azzardo, a lungo andare, può creare una pericolosa dipendenza: se il soggetto non è in grado di moderarsi, corre il rischio di finire risucchiato in un circolo vizioso che si ripete in continuazione. Chi perde, infatti, tende a giocare sempre più denaro per cercare di recuperare il proprio investimento, e per tentare il jackpot. Ben presto questa diventa l’unica preoccupazione dei ludopatici, che danno fondo ai propri risparmi e spesso richiedono prestiti alle banche per poter finanziare il proprio vizio di gioco. Nei casi più estremi, il ludopatico può anche ricorrere a truffe e furti per reperire i soldi per la sua dipendenza, e a tentativi di suicidio portati dalla disperazione.
I soggetti maggiormente a rischio
Recenti studi effettuati dalle cliniche per ludopatia, hanno dimostrato che molti dei giocatori dipendenti sono persone particolarmente competitive, che amano il rischio e ricercano continuamente qualcosa che possa infrangere il loro stato di noia. Nel campo delle patologie psicologiche, il gioco d’azzardo compulsivo è un fenomeno che attecchisce facilmente nei soggetti che soffrono di disturbo narcisistico e di personalità borderline, in quanto più propensi a perdere il controllo della loro volontà.
I vari tipi di dipendenza da gioco d’azzardo
Bisogna comunque specificare che esistono diversi livelli di dipendenza da gioco d’azzardo: c’è il giocatore problematico, che utilizza il gioco d’azzardo per sfuggire ai propri problemi personali, ed il giocatore patologico, che subisce la dipendenza da gioco anche per via di altre problematiche psichiche. Infine, la categoria più preoccupante è quella del giocatore patologico-compulsivo, che spinge la dipendenza da gioco d’azzardo ai massimi livelli, indebitandosi e causando ingenti danni economici alla propria famiglia.
Le fasi della dipendenza da gioco d’azzardo
La dipendenza da gioco d’azzardo nasce sempre da una fase vincente, ovvero da un momento in cui il giocatore impegna sporadicamente piccole somme di denaro, vince ed intuisce il potenziale economico del gioco. La fase successiva, detta perdente, lo vede spendere cifre sempre più alte, andando incontro a sconfitte sempre maggiori: è in questa fase che si manifesta la dipendenza, ed aumenta il tempo dedicato al gioco. La fase critica sopravviene quando il giocatore si rende conto di essere dipendente e chiede un aiuto per uscirne. Tale aiuto (detto fase di ricostruzione) può avvenire per mano dei familiari, oppure di una clinica psichiatrica specializzata.

Fobie a Andria

Le fobie consistono in una paura viscerale e sproporzionata rispetto ad un determinato fattore. L’elemento che differenzia le fobie dal normale timore o dalla paura è proprio quello della sproporzione. Infatti, è del tutto naturale ed istintivo provare paura per qualcosa che potrebbe minacciare, anche teoricamente, la propria incolumità, mentre nel caso della fobia la paura è talmente incontrollata e potente da non poter essere disciplinata neppure per mezzo dell’utilizzo di sistemi razionali, del ragionamento, e via dicendo.

Al pensiero di poter venire a contatto con la fonte della propria fobia, la persona che ne soffre è colta da veri e propri sintomi come la nausea, le vertigini, il disgusto, il terrore, una sensazione di spossatezza e di soffocamento che può tramutarsi anche in un attacco di panico.
Le persone fobiche hanno la tendenza di evitare tutte le situazioni che, in qualsiasi modo, esse associano alla paura. In questo modo però essere contribuiscono a creare un vero e proprio circolo vizioso che continua ad auto-alimentarsi: la loro paura di recarsi in certi luoghi crea sensazioni di malessere, disagio, sfiducia, e rischia di compromettere alla lunga fenomeni indispensabili come le relazioni sociali, le amicizie, e via dicendo.
Si tende a ritenere che le fobie non abbiano alcuna motivazione o origine inconscia, ma che siano il frutto dell’errato approccio con alcune realtà. Ad esempio, a causa di un’esperienza avuta da bambini (e che magari neppure ci si ricorda) si può associare ad un determinato evento o animale un’aura di pericolosità e via dicendo.

Esistono diverse tipologie di fobie. Le fobie generalizzate, come agorafobia, o fobia sociale, sono tra le più invalidanti, perché precludono al soggetto la possibilità di avere un’adeguata e soddisfacente vita sociale. La fobia generalizzata non riguarda infatti un singolo fattore, che potrebbe essere controllato o evitato, ma interi contesti: ad esempio, il terrore di trovarsi in uno spazio chiuso o aperto, il terrore del contatto con le altre persone e così via.
Le fobie specifiche, che sono le più comuni, sono anche le più semplici da gestire. Possiamo ricordare quelle che scaturiscono dagli animali, ad esempio l’aracnofobia, l’ornitofobia, la cinofobia, e così dicendo. C’è poi chi soffre di acrofobia, ovvero paura delle altezza, di paura dei temporali, dell’acqua, chi invece ha il terrore incontrollato di sangue, siringhe, aghi.
Abbastanza numerose le fobie riconnesse alle situazioni, come quella dei trasporti pubblici, del volo (l’aviofobia), di guidare, ecc.

Superare la fobia è un passo fondamentale per aprirsi al mondo con maggiore serenità, senza compromettere il proprio equilibrio e neppure i rapporto sociali.
Tutte le tipologie di fobie possono essere affrontate, ma il trattamento dipende in buona parte anche dalla persona. A parte una buona dose di volontà, che è necessaria per superare questo fenomeno, in alcuni casi potrebbe servire un trattamento medico, comportamentale o psico-terapeutico, per affrontare le situazioni fobiche più complesse.
Riconoscere l’esistenza della fobia è un gran primo passo per poter superare la paura. Al riconoscimento deve seguire la volontà di vincere ciò che scatena l’irrazionale terrore.
Come in ogni caso, per superare la fobia bisognerà muoversi un poco alla volta, senza fretta e senza cercare di fare più del necessario. Sconfiggere una fobia richiede una grande forza di volontà, costanza e l’appoggio delle persone che stanno accanto a sé. Cercare di affrontare direttamente la fonte della fobia può essere solamente causa di traumi: bisogna, a tal proposito, ricordare che la fobia non è un elemento razionale e quindi controllabile, ma un terrore che non trova una spiegazione in meccanismi mentali.
Bisogna cercare di dare il giusto valore alla propria paura ed al proprio terrore, senza sottovalutare la fobia ma anche senza sopravvalutarla, per vincerla.

Disturbo ossessivo compulsivo a Andria

Il disturbo ossessivo compulsivo di personalità ha dei tratti precisi che si possono individuare in chi ne soffre.
Sono persone che curano in modo maniacale l’ordine e organizzano la loro vita sistematicamente, con liste e percorsi predeterminati anche mentali ed estremamente rigidi. Amano il perfezionismo in ogni sua manifestazione, nella vita privata come nel lavoro, curando i particolari per raggiungere un risultato impeccabile.

Sono talmente concentrati nell’organizzazione di ciò che fanno, che non di rado possono anche perdere di vista l’obiettivo finale.
Dal punto di vista emozionale la persona affetta da disturbo ossessivo compulsivo è introversa e non riesce a esternare le proprie emozioni ponendosi in modo ipercritico rispetto alla propria condotta. La sua severità si riferisce anche ai propri comportamenti che sono estremamente coscienziosi e attenti alla moralità.
In base a quanto detto, la persona con disturbo ossessivo compulsivo non accetta errori o infrazioni delle regole date.
L’impegno profuso in ogni ambito ne fa dei lavoratori instancabili che arrivano anche a trascurare la loro vita privata o i momenti di svago. L’equilibrio che creano nella loro quotidiano li porta tuttavia a non accettare rischi, a vivere in modo statico e rifiutare in linea di massima le novità che arrivano naturalmente senza essere state “predefinite”.
Questa staticità è frutto anche di sentimenti avari, di egoismo e di poca empatia verso familiari, amici, partner.
Anche nel caso di fallimenti sentimentali la persona affetta da disturbo ossessivo compulsivo non cambia il suo comportamento, attenendosi rigidamente alle sue regole.
Il circolo vizioso che si viene a creare si riferisce sempre all’essere ligi ai propri doveri, ma senza mai trarre vera soddisfazione da quello che fanno.
Un tale stato di cose provoca nelle persone con disturbo ossessivo compulsivo uno stato di ansia perenne, rivolto soprattutto al proprio operato di cui non sono mai soddisfatte. Il pensiero predominante di dover fare sempre meglio e di non riuscire a raggiungere standard evidentemente troppo elevati, li pone in una condizione di rabbia per non essere riusciti nell’intento. Anche la difficoltà di non essere capaci a esprimere le proprie emozioni e i sentimenti porta questi pazienti a provare una profonda frustrazione, in lotta continua con se stessi e con un senso di logoramento che si rinnova ogni giorno. Il loro perfezionismo si spinge anche nel modo di vedere i rapporti interpersonali, verso i quali provano un senso di colpa temendo di poter fare danni o arrecare dolore anche se stessi. La loro “coscienziosità” li porta anche a preoccuparsi eccessivamente delle critiche che gli vengono mosse, temendole e rifiutando qualsiasi giudizio sul loro modo di agire e di operare.
L’esordio del disturbo ossessivo compulsivo si colloca di solito all’inizio della vita adulta e ha il suo picco intorno ai 40–50 anni.
Le cause sono da ricercarsi prevalentemente nell’infanzia e nel rapporto con i genitori che probabilmente si sono dimostrati anaffettivi e troppo rigidi nel controllo del figlio.
I rimproveri frequenti, la richiesta di responsabilizzazione ben oltre la maturità di un bambino e il modo di trattarlo e di parlargli come fosse un adulto, possono innescare il disturbo ossessivo compulsivo di personalità. L’educazione impartita, se eccessivamente impostata sulla moralità, sull’etica e sulla proibizione di manifestare apertamente qualsiasi tipo di emozione (per esempio invitarli a non piangere mai), è una costrizione che porta a forti squilibri di personalità. In realtà di fondo i genitori, che sono il punto di riferimento durante l’infanzia, si pongono verso il bambino in modo contraddittorio dimostrandosi da un lato solo teoricamente affettuosi, ma non lasciandosi quasi mai andare a manifestazioni di apprezzamento e gratificazione.
L’intervento dello psicologo in questo quadro avviene attraverso la terapia cognitivo comportamentale, focalizzando le convinzioni del paziente e suggerendo i cambiamenti necessari per ristabilire anche l’equilibrio psico fisico. Il paziente riesce così ad accettare i propri limiti e le proprie emozioni, ridimensionando la rigidità e la tendenza a essere ipercritico e acquisendo elasticità riguardo ai suoi valori etici e morali.

Disturbi di personalità a Andria

Ogni individuo ha una sua personalità con caratteristiche peculiari che lo definiscono durante tutto il corso della vita e ne determinano reazioni ed emozioni.
I disturbi di personalità riguardano invece tutto ciò che snatura i tratti portando il soggetto a manifestazioni patologiche che si discostano dalla normalità.
I disturbi di personalità possono riguardare a grandi linee aspetti come le ossessioni, il narcisismo, la dipendenza, la sospettosità e la seduzione e si manifestano soprattutto nei rapporti familiari e interpersonali.

Molto spesso hanno anche origine proprio dai rapporti che si instaurano nella famiglia.
Se si parte dal presupposto che ogni personalità ha dei tratti tipicizzanti, questi per arrivare a essere definiti patologici devono caratterizzarsi per reazioni o comportamenti esasperati, con eccessi o rigidità irremovibile che caratterizza le convinzioni di un individuo.
I disturbi di personalità possono quindi essere analizzati da un punto di vista “dimensionale” ma anche partendo da categorie, che possono inquadrare il soggetto per arrivare a una diagnosi.
Tali categorie sono per esempio quella del disturbo ossessivo-compulsivo, antisociale, paranoide, istrionico, ecc.
In ognuna sono elencati tratti precisi, la diagnosi, il trattamento, ma anche le cause e l’eventuale uso di una terapia farmacologica.
Il disturbo di personalità, per essere definito tale, deve avere continuità nel tempo ed evidenziare un certo di grado di problematicità nella vita del soggetto.
Per arrivare a una diagnosi bisogna dunque valutare in modo imprescindibile 4 aspetti della personalità quali l’identità, l’autodeterminazione, la capacità empatica, la sfera intima e individuare il grado di disturbo.
I disturbi di personalità sono diversi:il disturbo ossessivo-compulsivo, il disturbo paranoide, antisociale, borderline, narcisistico, istrionico, evitante, dipendente e segnano a grandi linee altrettanti tipi di comportamenti patologici.
Il disturbo ossessivo-compulsivo denota una personalità estremamente schematica e precisa, incline verso l’attenzione a ogni particolare, particolarmente autocritica ed esigente verso se stessa.
Il disturbo paranoide di personalità, invece, denota soggetti assai sospettosi rispetto ai comportamenti di amici e colleghi di lavoro tanto da stravolgere non di rado la realtà, interpretando in modo del tutto errato azioni normali come minacciose o critiche nei propri confronti. Di fondo i soggetti non hanno fiducia in se stessi e tendono all’egoismo.
Il disturbo antisociale di personalità è quello che non tollera le regole a tutti i livelli, va contro il sistema e spesso fa esperienza di atti di delinquenza e uso di alcool o sostanze stupefacenti.
Il disturbo di personalità borderline riguarda soggetti con emozioni fortemente instabili, sbalzi di umore repentini, mancanza di capacità decisionale.
Il disturbo della personalità narcisistico invece è tipico di persone che hanno un’ alta concezione di se e cercano continue gratificazioni e approvazioni dagli altri. Di fondo sono insicuri e spaventati e reagiscono in modo esasperato ai normali fallimenti della vita (una separazione sentimentale o una bocciatura a scuola).
Il disturbo istrionico di personalità denota un comportamento fuori dagli schemi, anche nell’abbigliamento e nei discorsi, che sono quasi incomprensibili. I soggetti sono impressionabili, hanno sempre bisogno dell’approvazione altrui e quindi puntano sulla seduzione o sul sensazionalismo, vivendo storie sentimentali tormentate e poco realistiche.
Il disturbo di personalità evitante è quello che caratterizza persone molto chiuse che rifiutano di relazionarsi per paura del confronto, della critica e dell’allontanamento, ma anche per un senso d’inadeguatezza. Sono ipercritici verso gli altri e vivono un vero e proprio disagio sociale caratterizzato da ansia e dalla tendenza a una vita monotona, triste e con interessi che non richiedono interazione sociale (per esempio la lettura).
Il disturbo indipendente caratterizza, al contrario, persone che non amano la solitudine e tendono a stabilire rapporti esclusivi e intrusivi di dipendenza verso gli altri, per i quali vogliono diventare una parte indispensabile della loro vita. Si adoperano e si impegnano per essere apprezzati e rendersi “necessari”. Hanno un’insicurezza di fondo che le fa sentire inadeguate e incapaci di badare a se stesse da sole e ogni abbandono o rottura, anche momentanea, è vissuta con grande ansia e drammaticità.

Disturbi dell’apprendimento a Andria

I disturbi dell’apprendimento si riferiscono alle difficoltà che i bambini anche molto piccoli incontrano in particolare nella lettura, nella scrittura, nella capacità di calcolo, ma anche nel livello di attenzione e nell’associazione di idee. E’ importante comprendere che il manifestarsi dei disturbi dell’apprendimento non significa avere figli meno intelligenti o che addirittura devono essere considerati affetti da una patologia o in deficit mentale. In realtà devono semplicemente essere aiutati a elaborare in modo diverso le informazioni che ricevono.

Il manifestarsi dei disturbi dell’apprendimento è molto eterogeneo perché un bambino può avere difficoltà a leggere ma non a fare calcoli, oppure può manifestare impedimenti anche nel linguaggio come in altri ambiti contemporaneamente.
Nei bambini con tali difficoltà di apprendimento spesso interviene anche la fatica a mantenere l’attenzione o a stare fermi per un periodo di tempo prolungato. Tali atteggiamenti si riferiscono più precisamente al cosiddetto deficit d’attenzione e all’iperattività.
Le cause dei disturbi dell’apprendimento sono difficili da individuare con assoluta certezza e precisione, ma gli studi hanno portato a credere che si tratti un’area cerebrale che riceve e coordina le informazioni ricevute in modo diverso, al punto da creare disagio nel recepirle e quindi elaborale come tutti i bambini.
I processi alla base della lettura, della scrittura o della capacità di calcolo diventano quindi molto difficoltosi e quelli che meglio possono accorgersi di questi disturbi sono gli insegnanti dell’asilo o delle scuole elementari.
In passato tali difficoltà nei bambini venivano scambiate per svogliatezza e disinteresse e spesso punite senza andare alla radice del problema.
La conseguenza era il mancato trattamento dei sintomi e le lacune che i bambini si portavano dietro per tutta la vita.
In effetti le difficoltà di un bambino soggetto ai disturbi dell’apprendimento non si eliminano, ma possono essere affrontate insegnandogli modalità alternative, che in una fase di età evolutiva come questa sono ideali per sfruttare il veloce immagazzinamento di informazioni.
Le ricerche dimostrano che se si interviene entro i 9 anni d’età la nuova modalità di apprendimento ha un successo superiore al 90%, mentre in seguito scende sotto il 30%.
Molto però dipende dall’individuazione precoce dei segnali che manda il bambino ai genitori e gli insegnanti.
Un ritardo nell’apprensione del linguaggio, un vocabolario povero di termini rispetto all’età, ma anche la confusione di lettere durante la lettura come la “b” o la “d” o la “q” con la “p”, il rifiuto a leggere davanti agli altri compagni, la confusione tra la “destra” e la “sinistra”, le difficoltà nel risolvere semplici problemi o operazioni matematiche, sono indicativi quanto meno della necessità di un’indagine da eseguire con test psicometrici.
Oltre a una nuova modalità di apprendimento, la consulenza psicologica per i problemi di apprendimento è utile anche a indirizzare il bambino, avviato spesso verso atteggiamenti aggressivi e di progressivo isolamento determinati dalle sue difficoltà.
Con il tempo infatti si può rendere conto di arrivare con ritardo e con maggiori difficoltà rispetto ai compagni.
L’individuazione o il sospetto da parte dei genitori sui disturbi dell’apprendimento deve avere un riscontro veloce per intervenire prima possibile.
Molti genitori invece pensano che questo tipo di problema passi con il tempo o si sentono in qualche modo responsabili dei problemi scolastici dei figli e ne provano vergogna. Inoltre temono di mettere in cattiva luce il bambino di fronte a insegnanti e compagni e per questo ritardano di molto la prima consulenza, rischiando di risolvere solo in parte il problema.
Si stima che i bambini con disturbi dell’apprendimento in Italia siano circa l’8%, ma che con un esame accurato e approfondito riescano a superare brillantemente non solo i primi anni di scuola, ma anche quelli dell’intera carriera studentesca.
Il metodo alternativo di apprendimento infatti sarà utile nel tempo e permetterà di superare qualsiasi tipo di difficoltà, aumentando il livello di attenzione e di autostima e favorendo un corretto inserimento del bambino nella classe e nel rapporto con i suoi pari.

Disturbi del sonno a Andria

Durante la delicata fase del sonno, momento in cui il corpo “lascia libere” le briglie della mente e permette all’organismo di ricaricarsi e di riprendere energie, alcune persone possono essere interessate da disturbi del sonno. Per disturbo del sonno si intende, in psicologia, un elemento che contribuisce a rendere agitato il sonno oppure che non consente al soggetto di addormentarsi, o di avere un ciclo sonno-veglia adeguato.
I disturbi del sonno sono fenomeni complessi, che meritano di essere studiati nelle loro peculiarità per poter trovare poi una soluzione consona.

In linea di massima si ricollega ad un buon sonno una buona qualità della vita, ed al contrario ad un cattivo sonno una vita frenetica o problematica. È un fattore dell’esperienza comune, infatti, che situazioni difficili, complicate o che generano grandi preoccupazioni possano causare un qualche tipo di disturbo del sonno. Per poter reagire a questo fenomeno, è opportuno essere in grado di comprendere da dove provenga la motivazione del disturbo del sonno, ma anche capire di che tipo esso sia, per poter giungere più velocemente ad una soluzione a riguardo.
Tradizionalmente in psicologia si distingue fra il disturbo del sonno come conseguenza ad una malattia mentale, ad un problema d0umore o di ansia molto grave, da quello dovuto invece ad una condizione medica (ad esempio un’operazione, un dolore, ecc.). Il disturbo del sonno in conseguenza all’assunzione di sostanze invece è strettamente correlato all’uso o abuso di determinare sostanze, mentre per disturbi primari del sonno si identificano quei fenomeni che costituiscono elementi di disturbo al normale ritmo del sonno e della veglia. I disturbi primari del sonno si dividono nella varie Dissonnie e Parassonie.
Come si può agevolmente comprendere, il tema del disturbo del sonno è molto vasto e variegato, e può non essere semplice arrivare alla radice della motivazione di questo fenomeno.
Tra le dissonnie più diffuse possiamo prendere in considerazione l’insonnia, che consiste nella mancanza di stimolo del sonno del soggetto, o nella difficoltà a mantenere il sonno. L’insonnia può essere occasionale, breve o cronica, e può essere causata anche da motivazioni connesse alla vita quotidiana (preoccupazioni intense) che dipendono strettamente anche dalla sensibilità del soggetto interessato. Tra le parasonnie più comuni, invece, annoveriamo il disturbo da incubi, un fastidioso disturbo del sonno che si verifica durante la seconda metà della notte, causando risveglio brusco, agitazione, tachicardia, sudorazione ed ansia, ed il Pavor Nocturnus, un risveglio violento accompagnato da urla, tachicardia, dilatazione della pupilla e mancanza di memoria parziale di quanto sognato. Anche il sonnambulismo è una condizione abbastanza comune, per quanto anche accettata, dato che solitamente il soggetto che ne è affetto non si ricorda nulla appena sveglio, né in genere il sonnambulismo provoca sensazioni di stanchezza o di spossatezza per il soggetto interessato.
I disturbi del sonno possono riguardare sia i bambini che gli adulti. In ogni caso, essendo la qualità del sonno connessa con quella dell’esistenza, è necessario provvedere ad una terapia se ci si rende conto che i disturbi del sonno durano troppo a lungo e che non si tratta di fenomeni occasionali o sporadici.
Per curare i vari tipi di disturbi del sonno è quindi fondamentale identificare di che tipo di fenomeno si stia parlando. Questo può avvenire solamente tramite la diagnosi di un medico esperto. La diagnosi comprende lo studio del paziente durante il sonno, per mezzo della cosiddetta Polisonnografia, che permette di prendere cognizione dei parametri vitali del soggetto durante il sonno, dell’elettroculografica, del flusso d’aria e della respirazione, e così via.
Solitamente per combattere i disturbi del sonno si richiede al paziente l’adozione di uno stile di vita sano, corretto e lontano da stress, alcol e fumo.

Disturbi del controllo degli impulsi a Andria

Tra i disturbi che fanno parte di categorie diagnostiche solo recentemente riconosciute, ci sono i Disturbi del Controllo degli Impulsi, che sono strettamente collegati ad alcune forme di dipendenza.
È stata la American Psychiatric Association, nel 1980, che con il DSM III ha assegnato un inquadramento diagnostico a disturbi come la cleptomania, il gioco d’azzardo patologico, la piromania e il disturbo esplosivo intermittente.

Nel 1987 veniva riconosciuto il valore diagnostico anche alla tricotillomania.
I Disturbi del Controllo degli Impulsi sono accomunati dalla incapacità da parte del soggetto di resistere ad un impulso o a una tentazione impellente, con la conseguenza che è portato ad eseguire azioni pericolose per se stesso o per altri.
La cleptomania è l’incapacità di resistere all’impulso di rubare oggetti, di cui non si ha necessità o di scarso valore commerciale, il gioco d’azzardo patologico è l’incapacità di resistere a un comportamento di gioco ricorrente e persistente, la piromania è l’incapacità di resistere all’impulso di appiccare il fuoco per puro piacere e gratificazione, il disturbo esplosivo intermittente si manifesta con saltuari episodi di incapacità di resistere a impulsi aggressivi o distruzione della proprietà, la tricotillomania è l’incapacità di resistere all’impulso di strapparsi i capelli per puro piacere o per alleviare uno stato di tensione.
Il disturbo si manifesta secondo caratteristiche piuttosto specifiche: prima di mettere in atto il comportamento compulsivo, la spinta è accompagnata da un aumentato senso di tensione, arousal o eccitazione, seguito da un senso di gratificazione, piacere o rilassamento, dopo aver compiuto l’azione.
Le cause non sono ancora chiare ma si ipotizzano meccanismi neurobiologici comuni e un’interazione di fattori biologici, psicosociali e psicodinamici.
Un impulso è una disposizione all’azione con lo scopo di ridurre una tensione causata da un accumulo di spinte istintuali o una diminuzione delle difese dell’ego nei confronti di tali spinte.
Il psicoanalista austriaco August Aichhorn, a seguito di un lavoro educativo che aveva svolto per molti anni con adolescenti che presentavano gravi problemi di adattamento sociale, era giunto alla conclusione che il comportamento compulsivo fosse collegato a strutture dell’ego associate a un trauma psichico dovuto a deprivazione durante l’età infantile.
Lo psicoanalista appartenente alla seconda generazione, Otto Fenichel, era convinto che il comportamento compulsivo fosse collegato a un tentativo di controllare sentimenti dolorosi come l’ansia, il senso di colpa e la depressione, per mezzo dell’azione. Sebbene all’esterno possano apparire come aggressivi e bramosi, in realtà, i comportamenti compulsivi sarebbero solo la ricerca di sollievo dal dolore.
Heinz Kohut collegò questi comportamenti complulsivi ai disturbi della personalità, come il narcisismo e l’incompleto senso del sé.
Se il narcisista non riceve conferma del suo valore nelle relazioni significative della sua vita, risponde con una frammentazione del sé, e i comportamenti compulsivi non sarebbero altro che un tentativo di ritrovare la completezza e coesione nel sè.
Più recentemente, il pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicot, partendo dal concetto di holding (sostegno), cioè la capacità della madre di fungere da contenitore delle angosce del bambino, premessa fondamentale per un sano sviluppo dell’individuo, collegò i Disturbi di Controllo degli Impulsi come un comportamento deviante da parte del bambino per ricostruire una relazione primitiva con la madre.
I Disturbi di Controllo degli Impulsi sembrano essere in aumento.
Collegati ai nuovi comportamenti individuali e sociali, sebbene non siano ancora stati inseriti nel Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali, si tende ad includere in questa categoria i più recenti disturbi come la dipendenza sessuale, la dipendenza da internet e lo shopping compulsivo, in quanto si manifestano nella stessa modalità: un aumento della tensione che precede la messa in atto del comportamento, la ricerca di gratificazione immediata e irrazionale, l’incapacità di sopportate il senso di frustrazione dall’evitare di mettere in atto il comportamento compulsivo.

Disturbi d’ansia a Andria

La maggior parte delle persone sperimenta, nel corso della vita, disturbi di ansia. L’ansia è una sensazione del tutto normale, causata da un istinto primordiale che, in situazioni di pericolo, porta l’organismo a reagire aumentando il respiro, il battito cardiaco e il consumo di energia (risposta del tipo “attacca o fuggi”). In sé stessa, l’ansia quindi non è un disturbo ma una risorsa utile in caso di rischio. Tuttavia, in alcuni soggetti l’ansia prende il sopravvento e la reazione è eccessiva e sproporzionata rispetto alla situazione:

in questo caso si è di fronte a un disturbo d’ansia, una condizione che può seriamente peggiorare la qualità di vita di chi ne è colpito, fino a renderlo del tutto incapace di affrontare la vita quotidiana. Spesso sottovalutati, i disturbi d’ansia sono problemi che possono diventare invalidanti per chi ne è colpito e frequentemente non rispondono alle terapie farmacologiche. Molto efficace invece è la psicoterapia, che si è dimostrata risolutiva in un grande numero di casi.
Il termine “disturbi d’ansia” riunisce un grande gruppo di condizioni, come le fobie, i disturbi da attacchi di panico, i disturbi ossessivi-compulsivi, il disturbo post-traumatico da stress, i disturbi d’ansia generalizzata e altri. A volte non si riesce a diagnosticare un disturbo d’ansia legato ad una delle categorie sopracitate, come nel caso degli attacchi di panico, nell’ansia da prestazione e nei disturbi della personalità.
La psicoterapia psicoterapia cognitivo-comportamentale combinata alla terapia farmacologica è la soluzione migliore per la gestione dei disturbi d’ansia. La psicoterapia indaga sulle cause degli episodi, riducendo l’evitamento da parte del soggetto e sviluppano capacità di affrontare la situazione in modo costruttivo, riconoscendo l’ansia ai suoi primi sintomi. La terapia farmacologica di supporto aiuta a gestire i sintomi più spiacevoli ed acuti degli attacchi di ansia: si utilizzano solitamente le benzodiazepine, molto efficaci e ben tollerate, e gli SSRI. Tuttavia i farmaci vanno utilizzati solo se vi è effettiva necessità e per brevi periodi, perché molti inducono assuefazione.
La combinazione farmaci-terapia psicologia da risultati superiori ai singoli approcci: mentre i farmaci aiutano a gestire la sintomatologia, la terapia cognitivo-comportamentale va a risolvere il problema alla base, partendo dal presupposto che lo stato ansioso sia causato da distorsioni cognitive, da pensieri reiterativi automatici e da situazioni che sono percepite come negative e pericolose dal soggetto. Lo psicoterapeuta quindi deve comprendere, tramite il colloquio con il soggetto, che cosa teme il paziente e quali schemi situazionali sono in grado di attivare l’ansia, il panico e la sintomatologia associata: i disturbi d’ansia sono caratterizzati da un inizio, da un picco (in cui i sintomi sono al loro apice) e da una fine, ma molto spesso il paziente non riconosce le diverse fasi ed è portato a pensare che l’ansia possa perdurare all’infinito. Ciò peggiora l’esperienza ansiosa e la porta a un livello di disperazione: per questo motivo per chi soffre di disturbi d’ansia è più facile cadere in stati depressivi dovuti alla propria presunta incapacità di gestire il problema.
Portando le paure più inconsce ad un livello di consapevolezza, la terapia cognitivo-comportamentale aiuta il soggetto a razionalizzare la propria ansia dando un nome ai sintomi e ai pensieri negativi, individuando le cause scatenanti e, in tal modo, fornendo al soggetto gli strumenti e le risorse atti a reagire e migliorare la propria autostima.
La fase di guarigione inizia quando il soggetto, con l’aiuto del terapeuta, rimuove i fattori che impediscono la realizzazione e che sono la causa principale dell’ansia. Esistono numerose tecniche per la terapia cognitivo-comportamentale, quali ad esempio il training autogeno e la desensibilizzazione.

Disturbi alimentari a Andria

Ogni uomo deve mangiare. Ogni giorno. Essenzialmente si tratterrebbe di un normale processo regolato solo dagli stimoli di fame e sazietà, invece, nel rapporto con il cibo e con la nutrizione in generale, entrano in gioco molti altri fattori apparentemente esterni al tema alimentare: stati d’animo quali paura, ansia, senso di colpa, desiderio e piacere, ecc. sono tutti aspetti dell’anima che si esprimono anche attraverso il cibo.
Un esempio emblematico dello stretto legame tra stato d’animo e cibo è rappresentato dalla condizione di malattia, durante la quale è sensibilmente alterato ovvero disturbato il rapporto con l’alimentazione.

In ambito medico è frequente l’abitudine di osservare anche il grado di appetenza del paziente nell’ambito di una indagine generale del suo stato di salute.
I dati statistici indicano che attualmente circa mezzo milione di giovani ragazze e donne adulte soffrono di disturbi alimentari. Inoltre, si assiste negli ultimi anni ad un progressivo abbassamento dell’età media dei nuovi pazienti. Al riguardo, registriamo che ben il 33% delle ragazze di età compresa tra i 14 e 17 anni manifestano segni di disturbi legati alla sfera alimentare e che il fenomeno è in crescita anche tra i ragazzi.
È significativo osservare che tutti i disturbi alimentari ruotano attorno al cibo, il quale rappresenta costantemente il comune denominatore. Nella maggioranza dei casi, i giovani interessati da problemi con il cibo possiedono un’auto-considerazione di se stessi alterata e si sentono spesso sotto forte pressione. Mediante il cibo, questi giovani cercano inconsapevolmente di compensare le loro alterazioni. Ma invece di riuscire a ripristinare un equilibrio soddisfacente con se stessi, modificano anche il loro rapporto con il cibo in modo patologico.
Le forme patologiche dei disturbi alimentari sono diverse e spesso complesse. Alcune con chiare evidenze cliniche, mentre altre, probabilmente la maggioranza, con manifestazioni sub-cliniche. L’individuazione dei disturbi alimentari appartenenti a quest’ultima categoria sono comprensibilmente più difficili e richiedono frequentemente approfondite analisi mediche.
Tra le diverse forme di disturbo alimentare, particolarmente diffusione tra i giovani sono l’anoressia e la bulimia. Nel primo caso, assistiamo ad una morbosa ricerca della magrezza a tutti i costi. I pazienti colpiti da questo disturbo mentale che si riflette in un disturbo alimentare, sono soliti a non riuscire a gestire le mezze misure. Essi vedono solo bianco o nero, concesso o vietato. Ogni tipologia di alimento viene classificata in due sole categorie possibili.
Questo approccio patologico al cibo provoca, oltre alla evidente carenza quantitativa, anche un altrettanto grave carenza qualitativa alimentare. L’anoressico giunge al punto di eliminare intere categorie alimentari privandosi più o meno consapevolmente di importanti nutrienti.
Il disturbo alimentare riguardante la bulimia viene invece descritto in genere come una stato mentale interposto fra due estremi: da una parte il malato riceve il forte stimolo di magiare il più possibile per compensare ansia o tristezza e, dall’altra parte, è mosso dall’imperativo di evitare a tutti i costi ogni tipo di cibo per evitare di ingrassare.
Le descrizioni sopra esposte sono naturalmente semplificate per motivi di chiarezza espositiva, tuttavia, per tutti i disturbi alimentari in generale, e non fanno eccezione bulimia e anoressia, occorre indagare approfonditamente le reali cause che hanno portato a questo rapporto alterato con il cibo e, successivamente, si devono impostare percorsi terapeutici personalizzati.
La tempestività dell’intervento terapeutico è quanto mai importante, soprattutto per scongiurare nel medio e lungo termine i danni derivanti dal comportamento alimentare alterato che, se trascurato, può condurre facilmente a gravi squilibri metabolici ed organici.

Disagio lavorativo a Andria

Il mondo del lavoro moderno ha dei risvolti che spesso si ripercuotono sulla salute psicofisica del lavoratore stesso a causa di comportamenti e vicende vissute che provocano un forte disagio.
Quando si parla di disagio lavorativo si fa rifermento a diversi ambiti di studio e di consulenza psicologica che riguardano il mobbing, la violenza psicologica, le molestie anche sessuali, lo stress per un eccesso di lavoro, il burnout, il workaholism e molto altro.

La sindrome da disagio lavorativo registra sempre più casi e si ripercuote inevitabilmente sulla serenità anche interpersonale, trasformando le ore trascorse sul posto di lavoro in un vero incubo.
Le manifestazioni di un tale stato di cose si palesano con vari livelli di somatizzazione come disturbi gastrointestinali, mal di testa, dermatiti, ipertensione, insonnia, stanchezza, apatia, nausea, tachicardia.
Sotto l’aspetto psicologico invece si evidenziano disturbi dell’umore, ansia, depressione, pensieri ricorrenti, rabbia, isolamento, calo dell’autostima, sospetto, sensazione di aver fallito, dubbi sulle proprie capacità lavorative.
Per contrastare il disagio lavorativo spesso si assumono atteggiamenti che sono comunque lesivi della persona e della stessa resa lavorativa, come assenteismo, reazioni spropositate e violente o troppo emotive, incapacità a mantenere l’autocontrollo e conseguente uso di psicofarmaci, fino ad arrivare ad abuso di alcool e/o sostanze stupefacenti.
Il disagio lavorativo ha quindi varie “facce” della stessa medaglia, che possono essere affrontate con la consulenza di un esperto di psicologia del lavoro che possa dare un aiuto concreto.
La consulenza aiuta il lavoratore a esternare le situazioni o le persone che creano questo forte disagio nel proprio ambito lavorativo e a prendere coscienza nonché a focalizzare meglio la sua situazione.
In tal modo è possibile trovare una modalità concreta per affrontare il problema, spingendo il lavoratore ad attivare le risorse e avere la forza per non cedere.
E’ importante infatti imparare degli schemi di comportamento per fronteggiare certe situazioni senza farsi condizionare anche fuori dal lavoro.
L’obiettivo è quello di riacquistare un equilibrio con l’ambiente lavorativo e con i colleghi anche se, in taluni casi di estrema gravità, non significa che lo psicologo possa sottrarre definitivamente il lavoratore alla sofferenza, ma offre comunque gli strumenti adeguati per affrontarla e combatterla.
I sintomi del disagio lavorativo non sempre sono facilmente riconoscibili.
Il mobbing per esempio consiste in una serie di comportamenti rivolti da superiori o colleghi verso un lavoratore o un gruppo di lavoratori al fine di portarli a dimettersi.
Le molestie invece ledono e offendono il lavoratore nella sua dignità e possono anche riguardare la sfera sessuale, con minacce e ricatti.
Il burnout riporta al significato letterale del “bruciarsi” e determina un progressivo stress lavorativo, soprattutto per i lavoratori che si occupano degli altri (medici, insegnanti, infermieri, poliziotti, ecc). La mancanza del “lato umano” del lavoro e la costante tensione possono portare il lavorare alla spersonalizzazione e al sentirsi svuotato del suo ruolo, passando dal coinvolgimento nel proprio lavoro all’estraneità sociale. Il burnout viene definito come un “esaurimento emozionale” che porta ad abbassare sensibilmente la resa lavorativa.
Il workaholism invece si manifesta con un eccessivo attaccamento al proprio lavoro, al punto da configurarsi come una vera e propria dipendenza.
E’ un aspetto del disagio lavorativo identificato relativamente di recente e per questo ancora poco noto e anche sottovalutato. In questo caso non è il lavoratore che subisce una situazione ma è lui stesso a scegliere questo modo di intendere la propria professione, annullando di fatto gli altri aspetti della vita secondo lo schema del “vivere per lavorare” e non viceversa.
Le persone passano la maggior parte della loro vita a lavoro e questo richiede che si intervenga in situazioni che hanno compromesso la serenità.
Chiedere un aiuto psicologico significa decidere di non essere più attori passivi del proprio disagio lavorativo, ma di reagire intervenendo fattivamente per un cambiamento in positivo.

Dipendenza da internet a Andria

Viviamo in una società sempre più spesso orientata verso l’utilizzo di Internet: che si tratti di studio, di lavoro o di svago, qualsiasi attività del nostro quotidiano finisce spesso per avere a che fare con il mondo del web. Ed è proprio per questo che stanno aumentando in modo esponenziale i casi di dipendenza da Internet: parliamo di soggetti che trasferiscono le proprie coscienze sul web, allontanandosi dalla vita reale e sostituendola con quella digitale.

Un comportamento che sviluppa una vera e propria ossessione per la rete, che spinge ad una frequentazione di Internet sempre più massiccia, e che isola il soggetto dagli affetti familiari e da ogni barlume di vita sociale.
Cos’è la dipendenza da Internet
La dipendenza da Internet è una patologia piuttosto giovane e, per questo, attualmente in fase di studio. Essa differisce dalle altre patologie ufficialmente riconosciute per via del fatto che non è propriamente Internet a causare dipendenza, ma le numerose attività che è possibile svolgere attraverso la rete. Approfittando ovviamente dell’anonimato, e della possibilità di poterle fare nell’intimità della propria camera. Quando si parla di dipendenza da Internet, dunque, si indicano quei soggetti dipendenti da attività supplementari quali il gioco d’azzardo, i videogames, il sesso online e qualsiasi altra forma di svago da compiere all’interno di una comunità digitale.
Internet amplifica le patologie predisponenti
L’I.A.D. (Internet Addiction Disorder) è una sorta di amplificatore di patologie predisponenti, che trovano nella rete la possibilità di crescere fino a diventare molto problematiche. Internet, infatti, non è di per sé fonte di dipendenza: può però diventare uno strumento pericoloso per la salute di chiunque presenti disturbi psicologici latenti quali il bipolarismo, il comportamento ossessivo-compulsivo e la depressione. Questi soggetti, infatti, trovano nel web l’occasione perfetta per sfogare le proprie frustrazioni e insicurezze lontano dalla vita reale, dunque senza dover sopportare un confronto face-to-face che, nella maggior parte dei casi, risulta impossibile alle persone con quadri clinici del genere. L’abuso e la dipendenza da Internet, quindi, sono il risultato del tentativo illusorio di ricreare una realtà fittizia in cui sentirsi a proprio agio.
La dipendenza da Internet ed il solipsismo telematico
I soggetti con problemi psicologici non sono comunque gli unici a correre il rischio di cadere in una dipendenza da Internet. Trattandosi di una patologia causata dalla necessità di soddisfare un bisogno, chiunque può diventare dipendente da Internet semplicemente abusando di questo mezzo di comunicazione. Il fenomeno è detto solipsismo telematico, ed indica appunto quei soggetti che, aumentando progressivamente il tempo speso sul web, non riescono più ad ottenere soddisfazione dalle attività svolte nel mondo reale. Questi soggetti finiscono per provare un brivido di piacere solo quando si collegano a Internet e, con il passare del tempo, rubano sempre più spazio alle attività giornaliere per dedicarsi alla navigazione del web.
I problemi portati dalla dipendenza da Internet
Come avviene durante qualsiasi forma di dipendenza, il soggetto ossessionato da Internet vive la propria vita nell’attesa del momento che gli crea soddisfazione. Con il trascorrere del tempo e l’aumento delle ore passate sul web, la persona con problemi di I.A.D. finisce per avere grosse difficoltà sia in ambito lavorativo che nello studio: si distrae facilmente, pensa solo all’attività che svolgerà più tardi sul web e con il progredire della dipendenza preferisce i rapporti digitali a quelli sociali. Nei casi più gravi, il soggetto è in grado di rimanere collegato per giornate intere senza bere o mangiare, andando incontro a gravissimi problemi di salute. Per questo motivo, un intervento psicoterapeutico mirato è spesso l’unica soluzione alla dipendenza da Internet.

Depressione a Andria

Le approfondite ricerche sulla depressione hanno confermato la natura fisica, oltre che psichica, del “male oscuro” che affligge gli uomini. Anche il cervello, infatti, come qualsiasi altro organo del nostro organismo, è formato da cellule, gliali e neuroni. I neuroni del cervello, molto numerosi (oltre cento miliardi), sono coordinati tra di loro da una struttura genetica e funzionale, e da un linguaggio chimico, fatto di messaggi elettrici ed informazioni a velocità elevatissima, tanto variabili quanto articolati.

Capita, purtroppo, che alcune vie di comunicazione delle cellule cerebrali si alterino. In particolare, nel caso della depressione, non risulta perfettamente funzionante il rapporto fra i neuroni ed i neurotrasmettitori monoamine (sostanze chimiche, indispensabili “messaggeri” nell’elaborato meccanismo). Questa categoria di neurotrasmettitori (serotonina, dopamina, noradrenalina), determinante nel controllo dell’umore, dell’ansia, della memoria, dell’affetto e del dolore, è implicata in maggiore misura nella depressione. Nel momento in cui il sistema di trasmissione nervosa viene compromesso da fattori ambientali, di forte stress o costituzionali, compaiono i classici sintomi della depressione, che coinvolgono più sfere emotive, generando alterazioni, disfunzioni e disturbi vari.
Una volta fatta chiarezza sulla natura fisica e biochimica della depressione, è bene conoscere i suoi sintomi, da intendere come campanello d’allarme, e le sensazioni di malessere che attanagliano gli individui colpiti. Il cambiamento d’umore, nell’arco di un solo giorno, di settimane, o addirittura anni, caratterizzato da un tono di rallentamento e tristezza, può rappresentare un segno evidente di depressione. Solitamente, a questo cambiamento repentino e recidivo subentra un senso di inadeguatezza ed inettitudine a vivere. Se la capacità di reagire non viene completamente assorbita dai meandri della malattia, si tende a nascondere questo stato di malessere dietro i fattori esterni. In realtà, i sintomi primari iniziano a solcare un percorso interiore, che può improvvisamente trasformarsi in un pericoloso non-ritorno. La mancanza di interesse ed interessi, ed il desiderio di solitudine, fino alla formulazione di pensieri ed ossessioni, allucinazioni e deliri, s’impossessano del corpo e dell’anima. Quando sopraggiunge, la depressione non può essere curata aspettando che passi. La necessità di assumere farmaci adatti è tanto importante quanto i benefici delle terapie cognitivo-comportamentali.
In questa delicata circostanza, è di fondamentale importanza che chiunque assista ai comportamenti apatici del soggetto depresso non infierisca ulteriormente. I rimproveri, o gli assillanti moniti ad usare la forza di volontà, cadrebbero nel nulla, in quanto la depressione è una malattia che annulla la volontà. Le sollecitazioni continue peggiorano lo stato già compromesso della psiche, ed inducono il soggetto a chiudersi interiormente, abbandonandosi. La soluzione migliore è quella di convincerlo, in modo affabile e comprensivo, a seguire una cura farmacologica, presso un ambulatorio, e a stabilire un buon rapporto di fiducia con il dottore, allontanando la sensazione di inguaribilità. Gli antidepressivi, inibitori selettivi della ricaptazione dei neurotrasmettitori, devono agire a livello biochimico, determinando l’aumento della disponibilità dei “messaggeri” chimici nello spazio sinaptico, cui corrisponde l’aumento dell’energia psichica (slancio vitale), e la riduzione dei sintomi dal punto di vista clinico. I farmaci utilizzati nella cura della depressione, a volte associati ad antipsicotici, possono generare reazioni diverse, spesso insopportabili nella prima iniziale fase, che inducono a cambiare rotta col trattamento, a modificarne le dosi, e così via. Nella maggior parte dei casi, dopo un primo periodo in cui si avvertono esclusivamente gli effetti collaterali, gli effetti terapeutici iniziano ad apportare i benefici sperati. Le terapie, soggettive, devono essere seguite e supportate dai familiari, per evitare che la depressione si ripeta ciclicamente, prendendo il sopravvento sulla vita e sui vitali sentimenti.

Cleptomania a Andria

La cleptomania è stata classificata dal Manuale diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM) tra i disturbi del controllo degli impulsi. Si tratta di una patologia che porta la persona a rubare oggetti di cui non ha realmente bisogno, generalmente cose di poco valore. Questo disturbo nasce dalla difficoltà a tenere sotto controllo i propri impulsi, per cui si cede al bisogno impellente di rubare. In realtà la persona non ha alcuna intenzione di impossessarsi dell’oggetto, di rivenderlo o di trarne profitto, tanto che nella maggioranza dei casi questo viene regalato, a volte accumulato in casa o addirittura gettato nella spazzatura.

Spesso la cleptomania è associata a disturbi alimentari (anoressia e bulimia), ansia, depressione, disturbo compulsivo o tossicodipendenza. Generalmente il cleptomane giunge all’attenzione clinica di psicologi e psichiatri in un secondo momento, proprio a causa delle conseguenze invalidanti prodotti da questi disturbi.
Il meccanismo di auto-mantenimento di questa patologia porta la persona a sperimentare una serie di emozioni che procurano uno stato di agitazione psico-motoria particolarmente intenso: poco prima del furto il soggetto vive una certa quota di tensione stimolata dal semplice pensiero di poter rubare. Nel momento stesso in cui avviene il furto, la persona vive una forte gratificazione e condizione di piacere. L’atto del rubare non avviene mai per vendetta o rabbia, non c’è nessun pensiero rivendicativo diretto al proprietario della merce. Una volta compiuto il furto, la persona sperimenta un forte senso di colpa, di disgusto di sè e di vergogna, per questo è molto raro che chieda aiuto. In alcuni casi vorrebbe farlo, ma teme fortemente le conseguenze penali delle sue azioni. Tuttavia, per quanto possa vivere una condizione di disagio, l’eccitazione di commettere di nuovo un furto sarà sempre più forte e condurrà la persona a reiterare il gesto.
Per poter parlare di cleptomania i furti devono avvenire quando la persona è lucida e pienamente cosciente, quindi al di fuori di eventuali allucinazioni o deliri di carattere psicotico. Gli episodi di cleptomania si verificano in maniera del tutto imprevedibile e spontanea, non vi è alcun tipo di pianificazione nè di intenzionalità, in quanto la persona risponde unicamente all’impulso che insorge in un dato momento. Il desiderio irrefrenabile di rubare è un pensiero ossessivo di cui la persona non riesce a liberarsi. I furti avvengono quasi sempre nei negozi e nei centri commerciali, quindi nei vari esercizi pubblici, mai in casa. Il cleptomane non è un ladro in senso stretto, nè un taccheggiatore avvezzo, anche se spesso nel corso dei processi queste persone potrebbero fare di tutto per risultare come cleptomani. Allo stesso modo non si può parlare di cleptomania nel caso in cui si tratti di un adolescente che ricorra ai furti unicamente come mezzo di trasgressione, per richiamare l’attenzione dei propri genitori e segnalare un disagio.
Spesso nella storia del paziente si sono verificati traumi o eventi particola stressanti, ci sono situazioni conflittuali alle spalle, problematiche di vario grado che possono aver procurato negli anni disagio e sofferenza.
Non sono ancora chiare le cause della cleptomania, ma sono diverse le ipotesi avanzate. Secondo alcuni autori uno dei fattori eziologici potrebbe essere correlato ad una diminuzione della serotonina nel cervello. Altri studi hanno evidenziato invece una diminuzione di flusso sanguigno nel lobo temporale.
Questo disturbo è abbastanza raro e in genere tende a manifestarsi durante il periodo adolescenziale, per lo più nelle donne, proprio come avviene per lo shopping compulsivo. Per il trattamento della cleptomania si sono ottenuti buoni risultati con la terapia cognitivo-comportamentale, spesso in associazione a farmaci stabilizzatori dell’umore, antagonisti degli oppiacei o SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina).

Bulimia a Andria

La bulimia è un disturbo del comportamento alimentare, nel quale il soggetto ingerisce quantità spropositate di cibo per poi tentare di non assimilarlo, attraverso diversi metodi come vomito auto-indotto, digiuno, lassativi, attività fisica eccessiva. I bulimici solitamente non sono sovrappeso ma normopeso o addirittura sottopeso; per mantenere la propria forma fisica senza sacrifici alimentari ricorrono ai sopracitati metodi, per rimediare agli attacchi di fame nervosa.

La bulimia spesso è associata ad ulteriori disturbi del comportamento alimentare come l’anoressia, oppure problemi psichici (depressione, disturbi d’ansia, autolesionismo, alcolismo, rischio di suicidio). La bulimia si ritrova spesso in soggetti con parenti stretti anch’essi bulimici: è stata quindi ipotizzata una predisposizione genetica, forse collegata a polimorfismi nei geni degli estrogeni o a particolari malattie endocrine come l’ovaio policistico. I fattori di rischio per la bulimia sono lo stress, la scarsa autostima e vivere in ambienti (familiari o scolastici) in cui la dieta e la forma fisica sono considerati essenziali.
Nell’episodio di bulimia, il soggetto ingurgita compulsivamente quantità enormi di cibo e ha la sensazione di non riuscire a controllarsi; dopo l’episodio, sopravvengono i sensi di colpa per cui il soggetto tenta in ogni modo di non metabolizzare il cibo. Questo comportamento può ripetersi più volte alla settimana e, nei casi più gravi, anche diverse volte al giorno.
Esistono due tipi di bulimia: nel primo, il soggetto tenta di eliminare fisicamente il cibo rigettandolo oppure somministrandosi lassativi ed enteroclismi; nel secondo, il bulimico si impone rigorosi digiuni ed intensa attività fisica. Molto spesso l’episodio di bulimia è programmato ed è scatenato da ansia, stress, episodi emotivi e delusioni.
La bulimia colpisce milioni di persone nel mondo, soprattutto donne: si stima che circa l’1% delle giovani donne sia bulimica. Le adolescenti dai 13 ai 19 anni sono i soggetti più a rischio, a causa dell’influsso negativo dei mass media e dell’età particolarmente influenzabile da modelli alimentari negativi.
La bulimia può causare erosione dei denti, reflusso gastrico cronico, disidratazione, squilibri elettrolitici, aritmie, esofagiti, lacerazioni, gastroparesi, stipsi, ulcere, infertilità, linfadenopatia. Diagnosticare la bulimia non è semplice in quanto esteriormente non ci sono molti segni visibili, se non quelli causati dal vomito auto-indotto (danneggiamento dello smalto dentale e dell’esofago, nocche ispessite). Si può sospettare un soggetto di essere bulimico se esso presta molta attenzione alle calorie consumate e al peso, ha bassa autostima, si reca al bagno spesso, è depresso e si lascia andare ad abbuffate di cibo.
Il trattamento principale e di maggiore successo è la terapia cognitivo-comportamentale, il cui scopo è scoprire le cause del comportamento e studiarle insieme al paziente, per risolvere il disturbo. Al trattamento deve essere integrato un regime alimentare deciso con un nutrizionista. I farmaci antidepressivi possono essere d’aiuto se alla bulimia è associata la depressione, come spesso accade. I trattamenti psicoterapeutici danno generalmente ottimi risultati, con una diminuzione delle abbuffate compulsive, minori comportamenti atti a perdere peso e sintomi psichici meno importanti.
Non sono rare tuttavia le recidive, per cui il soggetto in concomitanza ad episodi negativi torna ai vecchi comportamenti; spesso la situazione è complicata dalla coesistenza di ulteriori problemi come l’abuso di droghe e di alcol e problemi psichiatrici come i disturbi di personalità.

Attacchi di panico a Andria

Gli attacchi di panico sono una delle patologie più diffuse e, al tempo stesso, più misteriose nel panorama della psicologia. Nonostante i sintomi siano evidenti, e la malattia facilmente riscontrabile in chi ne soffre in modo cronico, le cause sono invece sconosciute: in merito, infatti, esistono solo una serie di teorie legate al funzionamento di alcuni meccanismi del cervello e, dunque, ad una predisposizione di carattere genetico.
Cosa sono gli attacchi di panico

Un attacco di panico è un momento particolarmente spiacevole da vivere per qualsiasi individuo, anche per chi ne soffre in modo sporadico. Tali attacchi arrivano improvvisi ed annunciati da una sensazione di travolgimento, che in pochi secondi causa una reazione psico-fisica che manda in confusione l’individuo. Il sopraggiungere di un’intensa ed immotivata paura, infatti, induce il cervello a rilasciare sostanze chimiche che attivano nel corpo una sorta di reazione automatica al pericolo imminente: i muscoli entrano in tensione, il corpo si irrigidisce ed il cuore, dopo un blocco momentaneo, comincia a pulsare velocemente. Il risultato è una sensazione di vertigine che, non a caso, può essere confusa con un attacco cardiaco.
Le differenze fra disturbi d’ansia e attacchi di panico
Proprio per la difficoltà nell’individuarne le cause, va fatta una precisazione sugli attacchi di panico: nonostante gli effetti provati siano gli stessi, essi devono essere distinti dai semplici disturbi d’ansia che, a causa dello stress, possono colpire chiunque. Gli attacchi di panico infatti, al contrario delle crisi momentanee, si manifestano frequentemente e non sono legati a momenti di particolare ansia o stress dell’individuo: colpiscono in qualsiasi istante della giornata, senza un motivo particolare. Proprio per questo motivo, si tende a distinguere il panico causato da situazioni d’ansia, a quello che invece colpisce i soggetti a causa di meccanismi mentali sconosciuti. Nel secondo caso, infatti, si tratta di una vera e propria patologia riconosciuta dalla medicina.
Le conseguenze degli attacchi di panico
Anche se un attacco di panico dura solo pochi secondi, lo stato di confusione mentale fa sembrare questo lasso di tempo decisamente più lungo e, di conseguenza, più difficile da affrontare sia a livello mentale che fisico. Ma le conseguenze degli attacchi di panico sono devastanti soprattutto durante i momenti in cui essi non si presentano: il soffrire di questo tipo di attacchi, infatti, spinge l’individuo a vivere la propria giornata con la paura costante di essere sopraffatto dal panico in qualsiasi momento. Un problema che distrugge la vita sociale, e che causa tantissimi danni anche a livello professionale. Lo stress accumulato durante l’intera giornata, dunque, aumenta la probabilità che il panico prenda il sopravvento sul soggetto.
Le cause degli attacchi di panico
Secondo recenti teorie formulate dagli psicologi, gli attacchi di panico sarebbero causati da due elementi: uno scorretto funzionamento di alcuni collegamenti neuronali, dovuti probabilmente ad un fattore genetico, e una particolare attività di una speciale zona del cervello, che teoricamente conserverebbe il patrimonio genetico condiviso da tutta l’umanità. Ovvero la paura ancestrale di forme o situazioni che ricorderebbero all’essere umano una situazione di pericolo vissuta dai propri antenati primitivi. Trattandosi di argomenti molto complessi e non sempre condivisi in ambito scientifico, risulta davvero difficile stabilire con certezza la causa degli attacchi di panico.
Cosa fare durante un attacco di panico
Gli individui che soffrono di ripetuti attacchi di panico dovrebbero imparare ad allenare il cervello a pensare positivo, soprattutto nel momento in cui si sente l’arrivo del panico. Svuotare la mente dalla negatività, insieme ad una corretta tecnica di respirazione, può aiutare a diminuire la violenza degli attacchi di panico.

Anoressia a Andria

Che cos’è l’anoressia
L’anoressia è un serio disturbo del comportamento alimentare che colpisce soprattutto le donne, ma che non risparmia anche gli uomini.
Per chi soffre di anoressia, il desiderio di perdere peso diventa più importante di qualunque altra cosa.

La perdita del peso può essere raggiunta sia tramite un regime calorico restrittivo, seguendo diete drastiche, digiuno, ed esercizio fisico in eccesso, oppure tramite il vomito autoindotto o facendo largo uso di lassativi e diuretici.
Con il progredire della malattia, il malato diventa sempre più ossessionato dalla bilancia, dal cibo e dalla sua immagine riflessa allo specchio, ma, indipendentemente da quanto possa essere già magro, non è mai soddisfatto.
L’anoressia può avere effetti devastanti sul corpo; alcuni di questi sono: depressione, problemi di memoria e di concentrazione, pelle secca e giallastra, unghie fragili, osteoporosi, carie dentaria, vertigini, capelli sottili, ecc.
Anche se chi soffre di anoressia tende a negare il problema, la verità è che si tratta di un disturbo serio e potenzialmente mortale. Fortunatamente, con una terapia adeguata ed il giusto supporto affettivo, chiunque può rompere il circolo autodistruttivo della malattia e riguadagnare salute e fiducia in se stesso.

Cause dell’anoressia
L’anoressia non riguarda esclusivamente il cibo e il peso. I disordini alimentari sono il sintomo di un malessere più profondo come la depressione, l’ansia, la pressione ad essere perfetti, il senso di inadeguatezza, condizioni che l’anoressico cerca di compensare esercitando un controllo sul cibo.
L’anoressia è una condizione complessa che scaturisce da una combinazioni di fattori sociali, affettvi e biologici. Anche se l’idealizzazione della magrezza gioca un ruolo fondamentale, ci sono molti altri fattori che contribuiscono ad innescare questo genere di disturbi, incluso l’ambiente familiare, le difficoltà emotive, la scarsa autostima e le esperienze traumatiche passate.
Oltre al mito della magrezza divulgato dai media, possono contribuire all’anoressia pressioni familiari e sociali, come la partecipazione ad attività che richiedono l’essere molto magri (danza, moda, ginnastica artistica), genitori oppressivi ed ipercritici ed eventi traumatici, come l’inizio della pubertà, una rottura, storie di abusi fisici o sessuali, ecc.
Alcune ricerche suggeriscono addirittura una predisposizione genetica all’anoressia. Anche la chimica del cervello gioca un ruolo determinante. Le persone anoressiche tendono ad avere alti livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, e ridotti livelli di serotonina e di norepinefrina, sostanze associate al benessere psico-fisico.

Terapia
Poiché l’anoressia riguarda sia la mente che il corpo, l’approccio terapeutico coinvolge diverse figure mediche, tra cui psicologi e dietisti. La partecipazione e il supporto dei membri della famiglia è determinante per incentivare ed accelerare il processo di guarigione.
Il trattamento dell’anoressia consiste in primis nell’affrontare i sintomi acuti della malattia, stabilizzando le condizioni cliniche del paziente. L’ospedalizzazione può essere necessaria in caso di pericolosa malnutrizione, di continui pensieri suicidi del paziente, ma anche finché non viene raggiunta la normalizzazione del peso corporeo.
La terapia psicologica è cruciale nel trattamento dell’anoressia. Il suo scopo è quello di individuare i piensieri e i sentimenti negativi che alimentano il disturbo alimentare per sostituirli con credenze meno distorte. Un altro importante obiettivo della terapia è quello di insegnare al paziente come affrontare le emozioni difficili e i problemi relazionali in modo produttivo, anziché auto-distruttivo. Patire la fame non può riparare in alcun modo l’immagine negativa di sé alla base del disturbo. L’unico modo per farlo è identificare il bisogno emotivo che l’inedia auto-inflitta soddisfa e trovare altri modi per compensarla.

Alcolismo a Andria

L’alcolismo è una patologia che consiste nella dipendenza del soggetto dal consumo di bevande alcoliche. La caratteristica principale della dipendenza da alcol è la necessità di consumare compulsivamente alcolici, senza attenzione verso la progressiva degenerazione delle relazioni sociali e della salute, direttamente correlate alla dipendenza.
Le cause dell’alcolismo non sono ancora chiare, ma fondamentale importanza hanno il livello di stress, la predisposizione genetica, l’estrazione sociale, l’età, il sesso e anche l’etnia.

L’assunzione cronica di alcol porta ad alterazioni organiche (soprattutto cerebrali ed epatiche) gravissime ed irreversibili, che possono anche portare alla morte, ma che allo stesso tempo impediscono all’alcolista di smettere di assumere alcolici: la causa della dipendenza è da ricercare nell’instaurarsi di un circolo vizioso cerebrale che prima induce alla tolleranza, poi alle crisi di astinenza e quindi all’abuso di alcol, nel tentativo di tamponare la crisi. Uno dei primi sintomi della dipendenza da alcol è l’incapacità del soggetto di controllare il desiderio di bere, anche in presenza di sintomi fisici e psicologici: molto facilmente l’alcolista è conscio di avere un problema ma lo rifiuta sistematicamente, auto-convincendosi di poter smettere quando vuole, che le quantità di alcol assunte in fondo non sono eccessive e che le persone intorno a lui (famigliari, amici, colleghi) stanno solo esagerando.
L’abuso di alcol prolungato nel tempo porta a sviluppare numerosi sintomi e patologie. La dipendenza cronica può causare cirrosi epatica che esita in cancro, pancreatiti acute e croniche, cardiopatie, epilessia; si possono verificare danni gravi al sistema nervoso centrale e periferico con conseguenti neuropatie (i classici tremori), diminuzione della fertilità, menopausa precoce. I problemi possono riguardare la salute mentale: non sono rari, tra gli alcolisti, malattie psichiatriche come depressione, psicosi, confusione, attacchi di panico, schizofrenia.
Tuttavia, l’alcolismo è una dipendenza curabile, anche se con difficoltà dovute solitamente alle ricadute frequenti dei soggetti. La diagnosi iniziale si effettua tramite questionari che hanno lo scopo di portare alla luce il problema, negato dall’alcolista; per curare i sintomi dell’astinenza si utilizzano le benzodiazepine.
In letteratura medica è ormai noto che le cause dell’alcolismo sono parzialmente genetiche, anche se concorrono complessi fattori ambientali; tra le cause ereditarie vi sono i geni responsabili del metabolismo dell’alcol, che aumentano i rischi di dipendenza. Anche un abuso in età precoce può predisporre all’alcolismo in età adulta, così come traumi in età infantile, un ambiente sociale e familiare povero o problematico, l’abuso di altre sostanze come droghe e farmaci.
L’alcolismo rappresenta oggi una vera piaga sociale: nel mondo, ne soffrono più di 140 milioni di persone, nella maggior parte uomini, anche se le donne sono più sensibili agli effetti negativi (fisici e psicologici) dell’alcol. L’abuso di alcol aumenta la probabilità di commettere reati o di essere vittima di violenze, e di allontanare la propria famiglia finendo per subire emarginazione sociale. Mentre le donne, per paura di essere stigmatizzate, tendono a bere quando nessuno può vederle e quindi a ritardare la diagnosi di alcolismo, gli uomini sono meno intimoriti dalla possibilità di essere isolati e ciò li porta a pubblicizzare, in alcuni casi, questo comportamento auto-distruttivo.

Aggressività a Andria

Nella psicologia, con il termine aggressività si fa riferimento a quei comportamenti che sono volti a causare un danno, psicologico o fisico, nei confronti di altri individui, a prescindere poi dal raggiungimento dell’obbiettivo che il comportamento aggressivo si era prefigurato.
L’aggressività è una componente naturale dell’essere umano, una componente così complessa che ancora oggi è oggetto di studio della psicologia e delle scienze sociali.

Quello che è noto è che l’aggressività di manifesta, in varie forme e declinazioni, in tutti gli animali. L’etologia, in particolare grazie all’influsso di Konrad, ha parlato dei comportamenti aggressivi come del complesso di azioni che sono volte a garantire la sopravvivenza.
Per quanto concerne quindi l’origine dei comportamenti aggressivi, si possono distinguere una componente familiare, in quanto un soggetto che nasce e cresce in una famiglia dove la violenza o l’aggressività è uno stile di relazione diffuso e comune avrà maggiore probabilità di adottare questo modus operandi nel rapporto con gli altri, ma anche una componente irrazionale, che affonda le radici nella nostra natura più profonda.
In alcuni soggetti, come suggerito da studiosi del calibro di Bruner, ad incrementare l’aggressività concorrerebbero fattori neuro-fisiologici, non modificabili dal soggetto in quanto tale. Alla serotonina è stata attribuita la capacità di diminuire la portata dei comportamenti aggressivi, con la conseguenza che i soggetti che dispongono di quantità limitate della sostanza sarebbero portati, in maniera del tutto meccanica, ad una maggiore aggressività.

Di per sé provare rabbia e una sensazione di aggressività può essere una componente fisiologica, naturale del nostro essere, anche se sembra che siano le persone rifiutate socialmente a provare i sentimenti di rabbia più intensi.
È importante tuttavia essere in grado di gestire e controllare gli impulsi aggressivi che si provano, perché altrimenti si lascia senza controllo un comportamento anti-sociale e potenzialmente pericoloso e dannoso.
Una delle modalità di controllo dei comportamenti aggressivi che sembra avere più successo è la cosiddetta “mindfullness”. Si tratta, nello specifico, di una sessione durante la quale il soggetto in preda a raptus d’aggressività osserva i propri comportamenti, le proprie pulsioni, gli stimoli anche fisici che prova nel momento dell’aggressività. Lo scopo del Mindfulness è quello di rendere il soggetto cosciente del perché della sua aggressività, e soprattutto di comprendere se si tratti di un attimo di rabbia come conseguenza ad un fatto esterno (un rifiuto, un insulto, ecc.) o se la reazione aggressiva sia piuttosto la diretta conseguenza del modo di pensare del soggetto rispetto al fattore esterno (orgoglio personale, superiorità, ecc.).

L’equilibrio psicologico della persona aggressiva si basa su una corretta gestione della rabbia e della violenza, ma non sulla repressione delle emozioni. Quest’ultima, infatti, potrebbe fare potenzialmente più danni dell’espressione stessa dell’aggressività.
Il modo migliore per mutare il proprio comportamento da aggressivo a comprensivo è quello di cercare di capire le ragioni dell’altro. Il classico trucco del “contare fino a 10” non è poi così sbagliato in questo senso. Cercare di far passare qualche momento fra la pulsione aggressiva e la sua manifestazione può essere utile per comprendere le ragioni dell’altro, e bilanciare così la reazione.
In psicologia, molti esperti indicano con certezza il ruolo dell’attività fisica nell’aiutare a gestire e controllare l’aggressività. Fare sport e muoversi aiuta a gettare verso l’esterno, ed in modo sano, le proprie pulsioni negative, la voglia di esternare la propria rabbia e aggressività. Per questo motivo fare sport aiuta a sentirsi meglio non solo fisicamente ma anche psicologicamente, e può essere un valido aiuto per stimolare la risposta positiva di un soggetto aggressivo, qualora egli non sia in grado autonomamente di provvedere ad uno sfogo salutare delle proprie pulsioni più violente e recondite.
Altre modalità di controllo dell’aggressività sono la consulenza psicologica e la psicoterapia, i centri d’ascolto e altri supporti di tipo psicologico.

Abusi e violenze a Andria

Una grande maggioranza di abusi e violenze provengono da persone vicine. La stessa casa è un luogo in cui culminano noti maltrattamenti.
Le donne e i minori sono le principali vittime di queste nefandezze che, non trovano fine perché non denunciate.
Ci sono una serie di motivazioni che spingono le vittime a tacere su abusi e violenze.

• La paura è un sentimento che genere paralisi fisica e mentale, chi subisce abusi, teme delle ripercussioni ancor peggiori.
• Il senso di colpa nasce dalla convinzione di essere “tenuti a subire”. Quando si viene maltrattati a lungo, nel cervello s’instilla un’anomala convinzione d’inadeguatezza; come se si stesse ricevendo una punizione perché non all’altezza di “qualcosa”. Si pensa di sbagliare, e si crede erroneamente che comportandosi bene, i maltrattamenti cesseranno: non è così.
• Incapacità di agire. Capita che la vittima subisca i soprusi consapevole dell’ingiustizia, ma ciò non è sufficiente. Spesso ci si sente soli, o lo si è davvero; il risultato non cambia e desta ancor più preoccupazione perché le vittime sanno cosa sta accadendo ma restano inermi e sopraffatte.
Secondo il profilo della vittima si avranno delle diverse azioni e reazioni.
Una donna che subisce abusi e violenze crea dinamiche familiari complesse, specie se in famiglia vi sono bambini costretti ad assistere alle prevaricazioni.
Se sono i bambini a subire maltrattamenti, la situazione è ancor peggiore:
• Il bimbo proverà un connubio delle sensazioni elencate sopra, e non sarà in grado di chiedere aiuto. Penserà che è giusto così, o che ha fatto qualcosa di sbagliato, verrà minacciato e costretto a tacere.
• Nel cervello del bambino si sovverte il senso di cura e protezione che dovrebbe essergli riservato, finendo per squilibrare tutto il meccanismo psico-fisico.
L’unica forma di tutela che ha un minore, è avere una figura di riferimento vicina, in grado di rendersi conto di cosa sta accadendo. Questa figura deve intervenire senza remore e strappare il bambino dall’origine dei soprusi: la casa, la scuola, qualunque sia.
Gli abusi e le violenze hanno diverse “facce”, possono manifestarsi come maltrattamenti, coercizioni e angherie: le conseguenze sono gravi.
Non si parla solo di esiti fisici, bensì psichici, dai quali è molto più difficile guarire.
Le violenze prendono forma in diversi modi:
• Soprusi psicologici. Uno degli espedienti più efficaci per i carnefici che intendono esercitare controllo e dominio psichico. Gli abusi psicologici sono da considerarsi in tutti i casi di maltrattamento, s’innescano in modo contemporaneo. Esistono ogni volta che la vittima viene minacciata, svalutata, costretta all’isolamento per mezzo di ricatti.
• Violenze fisiche. Gli abusi fisici possono partire da un’aggressione verbale e ripetuta nel tempo, trasformarsi in un atto intimidatorio e poi sfociare in ciò che era prevedibile fin da subito. L’esito sarà drammatico perché comporterà oltre al danno emotivo, anche quello fisico, provocato da botte, percosse, aggressioni, agguati e ferite inferte senza tregua.
• Lo stupro. Le violenze sessuali, sia rivolte alle donne, sia rivolte ai bambini, rappresentano uno degli abusi più devastanti sotto l’aspetto psicofisico generale. Nel caso in cui avvenga ai danni di un bambino, di solito non si ricorre alla forza: l’atto è subdolo e consiste nel riporre morbose attenzioni nei confronti del minore, fino all’abuso sessuale vero e proprio. Il bambino non capisce cosa accade nella maggior parte dei casi, e i danni sono gravi e permanenti se non s’interviene. Quando la vittima è la donna, gli abusi sessuali hanno uno stampo violento.
Abusi e violenze trovano compimento perché le vittime subiscono inermi; i carnefici stessi esistono perché esistono vittime inconsapevoli o incapaci di ribellarsi. Coraggio, prevenzione e aiuti esterni possono concorrere a uscire da queste spirali di violenza.

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